Prima di esprimere giudizi su alcune tematiche particolarmente complesse è necessario ricordare, innanzitutto a me stesso e poi a chi mi segue, che in macroeconomia non esistono ricette valide in assoluto, e che spesso si procede per tentativi ed errori. Questa premessa è doverosa perché nella realtà, politica e scolastica, in molti la dimenticano. Si fanno delle scelte e si studiano dei concetti come se fossero verità assolute e non esistessero alternative. Con un po’ di buona volontà, leggendo la storia del pensiero economico, si scoprirebbe che esistono una pluralità di posizioni su ogni singola tematica. Questa semplice verità, insieme a una buona dose di onestà e buon senso, farebbe crollare molti dogmi che oggi paiono intoccabili e aiuterebbe ad assumere posizioni più possibiliste. Detto ciò, è anche doveroso ricordare che negli anni abbiamo maturato alcune certezze, che possono essere considerate dei punti fermi sui quali ancorare una serie di ragionamenti. Tra queste c’è che il liberismo, basato unicamente sul principio del laissez-faire (mancanza di intervento dello stato nell’economia), non funziona. Il mercato non può essere lasciato libero di agire aspettando che si autoregoli, come enunciato dalla “teoria della mano invisibile” di Adam Smith. Oppure lo si può anche fare, ma a discapito dei più deboli, perché creerebbe una società profondamente iniqua. All’opposto c’è un altro punto fermo altrettanto importante: l’economia pianificata, gestita direttamente e completamente dallo Stato è fallimentare o, per lo meno, è incompatibile con un sistema democratico. Raggiunta la consapevolezza che la soluzione ottimale consiste in un sistema misto, il problema irrisolto è trovare la giusta misura d’intervento dello Stato nell’economia. La risposta è contingente, non può essere unica a valida per sempre, perché molto dipende dal contesto e dal periodo storico; si rende quindi necessaria una ricerca continua. Detto ciò, dobbiamo chiederci: in questi anni come ci stiamo comportando? Che tipo di politica economica adottiamo in Europa? Prima di rispondere è necessario precisare che la politica economica, nella sua complessità, ha due elementi fondamentali: la politica fiscale, adottata dal governo all’interno della politica di bilancio, e la politica monetaria, in passato gestita dai singoli Stati e oggi dalla Banca centrale europea. Per evitare di andare fuori tema, tratteremo in un altro momento le motivazioni che hanno indotto ad affidare alla BCE la politica monetaria. Si tratta di un tema importante da trattare perché è stata una scelta strategica, figlia di una visione politico-economica che ha avuto e avrà rilevanti conseguenze sul nostro futuro. Mentre, nel ragionamento attuale, è importante evidenziare che negli anni la politica monetaria della Banca centrale europea è cambiata. Infatti, quando nel 2008 la crisi americana ha investito bruscamente l’Europa, l’allora presidente della BCE, il banchiere Jean-Claude Trichet, in linea con la dogmatica visione liberista ha optato per il non intervento, nella speranza che il mercato, libero di operare, trovasse da solo una soluzione. Ma così non è stato, infatti nel volgere di poco tempo la crisi si è acuita con conseguenze disastrose per i Paesi più deboli. L’Italia, in forte difficoltà, per vendere i propri titoli di stato ha iniziato ad alzare i tassi di interesse, che a metà del 2012 hanno toccato il tetto (ai limiti dell’usura) del 7%. Quest’ultima è considerata una “soglia limite” oltre la quale molti economisti sostengono che ad un Paese non conviene indebitarsi, perché ciò provocherebbe un ulteriore innalzamento dei tassi d’interesse nell’affannosa ricerca di coprire il debito, entrando così in una spirale negativa. L’aumento esponenziale dello spread preannunciava il default dell’Italia o, più verosimilmente, l’uscita dall’euro. Anche se non completamente consapevoli, siamo stati vicinissimi alle due opzioni, evitate in extremis in due modi: il primo rassicurando l’establishment finanziario con la nomina, con le strane modalità di cui ho già scritto, di Mario Monti (presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro del direttivo del Gruppo Bilderberg) a Presidente del Consiglio dei ministri; il secondo con la nomina di Mario Draghi a governatore della BCE. Draghi ha subito imposto, nonostante la forte ritrosia della Germania, un cambio di strategia della Banca centrale europea intervenendo in maniera decisa nell’economia, dapprima agendo sui tassi d’interesse e infine arrivando a utilizzare strumenti non convenzionali. Infatti, il 2 agosto del 2012 il consiglio direttivo della BCE ha annunciato le operazioni definitive monetarie, meglio conosciute con l’acronimo OMT (Outright monetary transactions), che fanno seguito al famoso discorso di Londra nel quale Draghi pronunciò la frase: “Nell’ambito del suo mandato, la BCE è pronta a salvaguardare l’euro con ogni mezzo. E credetemi, sarà sufficiente”. Il senso di queste parole rivolte ai mercati è il seguente: non spaventatevi degli alti tassi di interesse e fidatevi dell’euro, perché garantisce la Banca centrale europea acquistando i titoli di Stato invenduti. In realtà non è stato necessario l’intervento, è bastato l’impegno per invertire il senso di marcia e provocare la riduzione dei tassi. Ma, successivamente, il governatore Draghi ha ritenuto necessarie altre iniziative, tra le quali la più importante e poderosa è il quantitative easing (alleggerimento quantitativo). Vista l’enorme portata dell’operazione, vediamo di capire qualcosa a riguardo. In questo articolo mi limiterò ad esporre i meccanismi, nei prossimi vedremo quali potrebbero essere i motivi per i quali fatica a raggiungere gli obiettivi previsti. Annunciata il 22 dicembre del 2015 dal governatore durante il World Economic Forum, questa iniziativa, più delle altre, ha trovato il disaccordo di molti. Come al solito la più incallita avversaria era e resta la Germania, innanzitutto perché ha sposato un altro modello economico, e poi perché tra tutti i Paesi dell’eurozona è quello che ne ha meno bisogno. La misura, utilizzata già negli Stati Uniti e in Giappone con esiti diversi, è abbastanza semplice nella sua applicazione: si tratta di stampare e immettere moneta nel mercato. Più difficile è comprendere come s’intendono raggiungere gli obiettivi previsti. Basti pensare che da marzo 2015 la BCE ha immesso sul mercato europeo 60 miliardi di euro al mese, passati a 80 miliardi nel 2016. Il piano doveva terminare nel 2016 ma a dicembre è stato prolungato, continuando con l’immissione di 80 miliardi mensili fino a marzo, per poi scendere a 60 fino a dicembre 2017. Nonostante ciò, visto che i risultati faticavano ad arrivare, il 25 ottobre 2017 c’è stata un ulteriore proroga di 9 mesi con modifica degli importi: da gennaio a settembre 2018 l’entità mensile dell’emissione è di 30 miliardi. Insomma, parliamo di cifre da capogiro e d’interventi dei quali la maggior parte della popolazione non è a conoscenza, e se lo è non ne comprende le dinamiche. Un tale aumento di liquidità è finalizzato a stimolare l’inflazione per portarla alla percentuale, ritenuta ottimale dalla BCE, del 2 per cento. Qualcuno potrebbe obiettare: ma l’inflazione non è un fenomeno negativo? In realtà non lo è sempre, e soprattutto non lo è in alcune circostanze ed entro certi limiti. Ricordiamo che l’inflazione è l’aumento generalizzato dei prezzi, che si traduce nella diminuzione del valore del denaro. Il costo dei beni e servizi aumenta quando c’è un incremento della domanda degli stessi. Per essere più chiaro faccio un esempio scolastico: se andiamo al mercato e tutti decidessimo di acquistare lo stesso bene, ad esempio delle mele, cosa succederebbe? Che il venditore possedendo una quantità limitata di mele, e non potendo vendere a tutti, alzerebbe il prezzo. Quindi, l’obiettivo principale di Draghi è far crescere l’inflazione, e cerca di farlo stimolando la domanda con l’immissione di più moneta in circolazione. Far ripartire la domanda di beni e servizi significa far partire di nuovo anche l’offerta degli stessi, così da evitare il fenomeno contrario e pericoloso della deflazione. Anche se istintivamente qualcuno potrebbe preferire quest’ultima (una diminuzione del costo dei beni) all’inflazione, con una riflessione più approfondita ne coglierebbe gli innumerevoli effetti negativi. Un Paese entra in deflazione (e noi italiani ne sappiamo qualcosa) quando c’è assenza o forte contrazione di domanda, e le aziende sono quindi costrette a produrre a costi più bassi. Il tutto si traduce in meno investimenti e taglio dei costi, e considerato che tra quest’ultimi i più importanti sono quelli del personale, le conseguenze saranno i licenziamenti e l’aumento della disoccupazione. Maggiore disoccupazione significa minore disponibilità economica dei cittadini e minori acquisti, il che comporta un ulteriore calo della domanda. Insomma, si entrerebbe in una spirale negativa sempre più pericolosa per la tenuta del sistema. Mentre inflazione (controllata) significa più euro in circolazione, minor valore del denaro e incremento delle esportazioni: se l’euro vale di meno rispetto alle altre monete, i nostri beni saranno più appetibili all’estero. Un altro importante effetto positivo si avrebbe sul debito pubblico. Sappiamo che il nostro è molto alto, si aggira sui 2.300 miliardi di euro, e ci procura una spesa di soli interessi di circa 90 miliardi di euro l’anno. Una diminuzione del valore dell’euro comporterebbe un decremento degli interessi da pagare, e permetterebbe ai governi di aumentare la spesa pubblica. Ciò potrebbe tradursi nel breve periodo nell’incentivazione di occupazione e consumi, e nel lungo periodo nell’incremento di investimenti nelle infrastrutture. Queste sono le “nobili intenzioni” di Mario Draghi, ma purtroppo le variabili sono tante. Nei prossimi articoli cercheremo di analizzarne alcune e faremo delle considerazioni a riguardo.