Inghilterra, Ungheria, Colombia e Stati Uniti: qual è l’elemento che accomuna questi Paesi? In ognuno di essi, negli ultimi mesi si sono svolte elezioni, dirette e indirette, che con il loro esito hanno stravolto ogni previsione e smentito qualsiasi sondaggio. Iniziamo dall’Inghilterra, dove il premier David Cameron, pur non essendo obbligato, indice un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, noto anche come referendum sulla Brexit. Lo fa per rafforzare la sua leadership, contro l’allora sindaco di Londra Boris Johonson, contro il leader dell’Ukip Nigel Farage, il segretario di Stato alla Giustizia Michael Gove e tanti altri. Lo fa perché tutti i sondaggi e gli opinionisti gli assicurano che la maggioranza degli inglesi voterà per il Remain, cioè per rimanere nell’Ue. Risultato? Il 23 giugno il 51,9% degli inglesi vota per il Leave, l’uscita dall’Unione Europea, e Cameron coerentemente si dimette. Decisivo è stato il voto delle periferie, dei disoccupati, dei disadattati. Il “Leave” è stato votato soprattutto in Inghilterra e nel Galles, mentre in Scozia, in Irlanda del Nord (e anche a Londra) hanno votato per il “Remain”. Per rimanere nell’Ue hanno votato prevalentemente i giovani, le persone più istruite e gli immigrati, mentre le persone più anziane, e quelle meno scolarizzate, che probabilmente hanno influenzato meno i sondaggi e gli opinionisti, hanno votato per l’uscita.
Passiamo all’Ungheria, dove il premier conservatore Viktor Orbàn indice un referendum per disattendere le decisioni dell’Unione Europea sull’accoglienza degli immigrati richiedenti asilo, in base alle quote di ripartizione stabilite. Gli ungheresi il 2 ottobre votano in blocco (98%) contro la decisione dell’Ue, ma il problema è che vota soltanto il 43.23% degli aventi diritto, e non si raggiunge il quorum del 50% previsto dalla Costituzione. Quindi tutto si conclude con un nulla di fatto, e le opposizioni chiedono a gran voce le dimissioni del premier.
Lo stesso giorno si vota anche in Colombia un referendum per ratificare il trattato di pace tra il governo e le Farc. Il presidente Juan Manuel Santos conclude una lunga e dura trattativa, durata quattro anni, con le forze armate rivoluzionarie (Farc), l’organizzazione terrorista che gestisce il traffico di cocaina e miete migliaia di morti attraverso la guerriglia. Gli accordi tra il presidente e il rappresentante delle Farc viene firmato in pompa magna otto giorni prima davanti al mondo intero. Le televisioni trasmettono l’evento, una platea vestita di bianco, in segno di pace, dopo un conflitto che è durato 52 anni, e ha contato circa 220mila morti, 29milanovecento sequestri, 30mila contadini espropriati e 3milacinquecento bambini reclutati. Il trattato viene firmato a Cartagena, e la pace è celebrata tra discorsi, colombe e ovazioni alla presenza dei potenti della terra. Santos avrebbe potuto concludere l’accordo senza la ratifica del popolo, ma ha ceduto alla tentazione di rafforzare la sua immagine, anche perché tutti i sondaggi gli dicevano che il popolo lo avrebbe acclamato. Risultato? Va a votare il 37.4% degli aventi diritto e il 50.2% boccia la pace. I paesi che non hanno vissuto direttamente sulla propria pelle gli atti di terrorismo bocciano l’accordo, perché lo interpretano come una resa. Influenzati sulla scelta dall’ex presidente Alvaro Uribe che ambisce a tornare al potere. Anni di lavoro e di rapporti tessuti con molta fatica, vanificati in un giorno.
Passiamo agli Stati Uniti, l’8 novembre si vota per le presidenziali, e fino al giorno prima del voto, tutti gli analisti, gli istituti di statistica, i sociologi, i giornalisti e gli studiosi danno per scontata la vittoria di Hillary Clinton, seppure con un margine che si è andato riducendo nel tempo. Da tutte le parti si legge e si ascoltano interventi che vedono vincente l’ex Segretario di Stato, e già si pensa agli equilibri futuri. Fino a quando, il giorno delle votazioni piove dal cielo il verdetto che affida in maniera anche sostanziosa, 306 grandi elettori contro 232, la vittoria a Donald Trump e sorprende gli stessi repubblicani oltre i membri dello staff presidenziale, i quali fino a qualche ora prima avevano dichiarato: “solo un miracolo ci può far vincere”. Anche lo stesso neo presidente sembra colto di sorpresa, tant’è che tiene un discorso moderato e di apertura probabilmente improvvisato. In molti ammettono il proprio disorientamento, mentre i più furbi dichiarano: “io lo avevo detto”. La stessa Hillary Clinton, lascia deserta l’assemblea di sostenitori che l’aspettavano per il consueto discorso che si tiene a fine spoglio, e aspetta il giorno successivo, forse per attutire meglio il colpo, per riconoscere pubblicamente la vittoria dell’avversario.
Tutti questi esempi ci offrono spunti di riflessione che analizzeremo successivamente, mentre in questo articolo ci limiteremo ai più evidenti. Il primo è che, a quanto pare, i sondaggi non sono più attendibili. Perché? Forse da un lato perché c’è sempre un certo margine di incertezza, e questa aumenta quando le differenze tra le posizioni non sono così nette, dall’altro lato perché il popolo è diffidente e non vuole dichiarare le proprie reali intenzioni di voto, quindi non risponde o dichiara una cosa diversa rispetto a ciò che pensa. Perché se non si fida più delle istituzioni, ritiene giusto anche prendersene gioco, in una specie di legge del contrappasso.
Il secondo spunto di riflessione nasce dall’osservazione del fenomeno di opinionisti, studiosi e giornalisti che non colgono la realtà. Il mondo frana sotto i loro piedi e loro non se ne accorgono, sono diventati tutti “profeti del giorno dopo”. Colgono i cambiamenti dopo che sono avvenuti. I motivi sono diversi, il primo sicuramente è che loro si fidano ciecamente dei sondaggi. Come la maggior parte dei politici, prima di esprimere la propria opinione si accertano di ciò che i sondaggi indicano come opinioni prevalenti. E quindi elaborano il loro pensiero in base a quello che ritengono essere il sentire comune. Il secondo motivo, ancora più importante, è che probabilmente vivono in un mondo che non riescono più a comprendere. Perché tutto è diventato molto più complesso, e nessuno ha più gli strumenti adatti per capire quello che succede. Mancando un modello sociale di riferimento, quasi tutti ripetono quello che più o meno ascoltano dagli altri, ma pochissimi analizzano. Perché è diventato difficilissimo farlo. Ci vorrebbero competenze trasversali, mentre ognuno è immerso nel proprio sapere che è più o meno profondo ma non riesce a cogliere le innumerevoli interconnessioni. Le conoscenze ci sarebbero, ma sono separate e ognuno parla un linguaggio tecnico specifico che gli altri non comprendono. E poi perché oggi è cambiato il modo di fare esperienza del mondo. Nel passato, quando tutto era più semplice e a misura di uomo, bastava uscire, andare nel mondo reale e vedere quello che succedeva. Oggi, in un mondo globalizzato, per vedere quello che succede fuori “bisogna tornare dentro”. Sembra un gioco di parole, ma è così. Le informazioni sul mondo non le prendiamo osservando il mondo, ma ascoltando i media e navigando in rete. Quindi non viviamo la realtà, ma la rappresentazione della realtà. E questo vale per tutti, vale per noi comuni cittadini, ma vale anche per i politici che ci rappresentano e per gli intellettuali. Quindi se il mondo è mediato, tutto dipende da chi ci racconta la storia e da come ce la racconta. Diventa importante una guerra se ce ne parla la televisione, altrimenti non esiste. Per noi oggi la guerra è quella che si combatte in Siria, e ci commuoviamo per i bambini siriani che muoiono sotto le bombe. Ma per tutti gli altri bambini che muoiono nelle altre numerose guerre in giro per il pianeta non si commuove nessuno. Regna l’indifferenza per le guerre nello Yemen, nel Camerun, nel Niger, nel Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo, solo per citarne alcune, dal momento che queste non ci vengono raccontate, e quindi non esistono.
Inoltre spesso gli opinionisti si fanno un’idea perché analizzano una certa realtà, quella che forse conoscono meglio. Quindi si concentrano più sulla classe medio alta, sui benestanti e sugli abitanti delle grandi città o delle zone più ricche del paese, portandosi dietro un retaggio culturale feudale, dove il popolo era diviso in classi sociali che avevano un peso notevolmente diverso a seconda di ciò che rappresentavano. Non ancora metabolizzano fino in fondo l’idea base della democrazia, dove il voto del premio Nobel vale quanto quello dell’analfabeta, e quello del miliardario vale quanto quello del disadattato.
Infine un altro elemento molto importante riguarda i cittadini. Osservando gli esempi che ho riportato in apertura, si potrebbe dire che i popoli stiano operando delle scelte apparentemente irrazionali e qualche volta autolesioniste. In realtà potrebbero essere anche solo dei segnali di protesta per cercare di rompere la cappa di potere che li fa sentire impotenti. L’unica occasione che hanno per incidere sulla realtà è quella del voto, e lo fanno in maniera eclatante. Ma sicuramente un altro elemento importante è che oggi nell’era dominata dalla tecnica, in un mondo globalizzato, tutto si muove velocemente, le distanze si accorciano e i tempi si riducono. Si sono ridotti drasticamente anche i tempi per pensare e prendere decisioni. Ormai tutto è a portata di mano, se vogliamo sapere qualcosa utilizziamo Google e in tempo reale otteniamo quello che ci serve. Questo ci ha abituati a rapidità di pensiero e sta diffondendo, soprattutto nei giovani, il fenomeno del multitasking, cioè l’essere in grado di fare più di una cosa contemporaneamente. Chiaramente, tutto ciò ha un costo, e il costo è la mancanza di capacità di concentrazione. È vero che siamo sempre più veloci, ma è anche vero che avendo meno tempo ci soffermiamo di meno sui concetti e stiamo perdendo la capacità di compiere lo stesso gesto in maniera approfondita. Spesso quindi le nostre scelte sono fatte più in base all’istinto che alla ragione, perché l’istinto arriva prima e costa meno fatica. Purtroppo in un mondo con queste caratteristiche la democrazia comincia ad essere fuori moda, perché la democrazia è lenta, ha bisogno di tempo, di discussioni e di approfondimenti. Inoltre diventa sempre più popolare e spesso ha la meglio la figura del leader che si esprime meglio, che meglio si adatta ai tempi della tecnologia, che è bravo con i tweet piuttosto di quello che probabilmente analizza con più attenzione il problema, ma è fuori tempo, e quindi ci annoia. Sta diventando di moda e sta avendo sempre più successo chi parla alla “pancia” delle persone e non al “cervello”. Anche perché “pancia” e “cervello” stanno diventando la stessa cosa.