Continuiamo con l’analisi intrapresa nel precedente articolo: “Il mondo da inventare”, dove abbiamo analizzato una delle conseguenze della mancanza di lavoro nella società capitalista e postindustriale. Con questa riflessione cercheremo di andare oltre gli esempi riportati in quell’articolo, e degli altri che si potrebbero fare partendo dal presupposto che la tecnologia nell’era della robotica è sempre più impegnata nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un tipo di intelligenza che non è più intesa come supporto all’uomo ma che intende sostituirlo, come dimostrano i due sistemi, Watson dell’Ibm e AlphaGo di Google, che in via sperimentale si sono confrontati con gli uomini e li hanno battuti, rispettivamente a Jeopardy, il gioco a quiz più popolare d’America e a Go, gioco cinese più antico e complesso degli scacchi. Questo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che ormai la tecnologia si sta preparando a sostituire l’uomo non solo nelle professioni manuali ma anche in quelle intellettuali. L’intelligenza artificiale può incamerare una serie enorme di dati, e maggiori sono le informazioni memorizzate minori sono le possibilità di sbagliare. E al di là dei buoni propositi, quanti di noi sceglierebbero di farsi fare una diagnosi medica da un dottore in carne ed ossa che ha la precarietà e le imperfezioni legate alla condizione umana, se potesse optare per un computer in grado ridurre notevolmente il margine di errore? Credo non sia il caso di insistere su questo aspetto, che è ormai abbastanza chiaro. Auto in grado di guidare da sole, mezzi in grado di produrre e trasportare autonomamente merci, avvocati e professionisti vari sostituiti da robot molto più precisi e informati, sono ormai una realtà che sta aspettando solo di entrare in scena. I problemi sono altri e numerosi, e alcuni non ci sfiorano ancora perché non è possibile prevederli, almeno fino a quando non saremo immersi nella nuova realtà. Ma sicuramente su altri, quelli che oggi appaiono più importanti, è necessario riflettere. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sul fatto che ci sarà sempre meno lavoro, lo si potrebbe convincere illustrando un fenomeno ancora più evidente e meno sofisticato: la crescita demografica. Basti pensare che nel 1950 sulla terra eravamo 2,5 miliardi di persone, oggi siamo 7,4 miliardi e si prevede che nel 2050 saremo circa 10 miliardi. Ora, con questi numeri e con una tecnologia che tende a sostituire l’uomo, sarebbe interessante sapere cosa pensano di inventare i nostri governanti per far fronte alla carenza di lavoro. Certo è che se non iniziamo a prendere provvedimenti, presto ci troveremo di fronte ad una realtà dal duplice aspetto: da un lato una produzione di beni e servizi sempre maggiore che arricchisce i pochi, dall’altro la stragrande maggioranza della popolazione che sarà disoccupata e senza reddito, e di conseguenza non potrà acquistare i beni prodotti. A questo punto il sistema imploderà. Ecco perché nel “mondo da inventare” ho sottolineato la necessità che la classe politica di tutto il mondo ponesse all’ordine del giorno il problema della distribuzione della ricchezza. Per quello che riguarda il nostro Paese, probabilmente si dovrebbe avviare un percorso irto di ostacoli, partendo dal concepire il lavoro in una maniera diversa. Dovremmo iniziare ad intendere lavoro anche quello che fino ad oggi non è stato considerato tale, e forse ipotizzare di fondare la nostra repubblica su qualcos’altro. So che quello che dico per molti potrebbe sembrare assurdo, e questo mi fa comprendere ancora di più la necessità dell’enorme impegno necessario, anche e soprattutto dal punto di vista culturale. Bisogna iniziare a concepire un altro paradigma, ma abbiamo bisogno di cervelli in grado di comprenderlo e che abbiano la possibilità e l’autorevolezza per poterne gettare le basi. Ma questo non basta, perché il fenomeno è ancora più complesso, in quanto non omogeneo. Non si può pensare che il tutto avverrà da un momento all’altro. Come la storia economica ci ha insegnato, i passaggi da un’era industriale all’altra non sono mai stati repentini e uniformi. Le date che segnano i passaggi da una rivoluzione all’altra sono indicative, e fanno riferimento ad avvenimenti simbolo. Nessuno può seriamente pensare che il giorno dopo l’invenzione della macchina a vapore si sia passati come d’incanto dall’epoca preindustriale a quella della prima rivoluzione industriale. Nella realtà, tutt’ora, a seconda del contesto che frequentiamo, passiamo da un ambiente altamente tecnologico che appartiene al periodo postindustriale, ad ambienti ancora immersi nella prima o seconda rivoluzione industriale. A fianco ad abitazioni che sono interamente gestite dalla domotica, ci sono abitazioni concepite nei precedenti periodi industriali. Emblematiche sono le foto che girano su internet, dove si vedono persone del cosiddetto “terzo mondo” che vivono in zone desertiche con i relativi problema della scarsità di cibo e acqua, ma in compenso con in mano un cellulare, o con una parabola posizionata sopra un’abitazione precaria. Questa disomogeneità ci induce ad un’altra riflessione: se da un lato è vero che a livello generale la robotica andrà a sottrarre lavoro agli esseri umani, è altrettanto vero che questo fenomeno non avverrà in un giorno e non si manifesterà nella stessa maniera nei singoli Paesi. Analizziamo la situazione che ci riguarda più da vicino: quella italiana. Da noi, per una serie di motivazioni che probabilmente tratteremo in futuro, il tessuto industriale è composto da piccole e medie imprese. Le poche grandi aziende del nostro Paese, hanno delocalizzato e sono state ormai quasi tutte acquistate da Paesi esteri. Bisogna considerare che le grandi aziende, grazie alle economie di scala e alle loro capacità finanziarie, sono quelle che più investono in ricerca e sviluppo, e che nel breve periodo si avvarranno della nuova tecnologia diventando altamente innovative. Le piccole realtà non hanno la cultura, gli strumenti e le possibilità per investire nella ricerca, e probabilmente faranno un’altra scelta: approfitteranno della grossa disponibilità di manodopera a basso costo fornita dalla crescita demografica e dall’immigrazione, per abbassare il costo del lavoro, e rimanere sul mercato. Quindi, almeno nel breve periodo, il problema principale non sarà quello della robotizzazione (che comunque sarà presente) ma di una politica che tenderà sempre di più a svalutare e precarizzare il lavoro. Un lavoro che la tecnica sta rendendo sempre meno specializzato, che non ha bisogno di grossa professionalità, e che pertanto tutti possono eseguire. In base ad una semplice regola economica, quando aumenta la domanda si abbassa il prezzo, e così si abbasserà la remunerazione del lavoro. Quindi, se non verranno presi opportuni provvedimenti, come sono quasi certo che sia, in un futuro piuttosto imminente, nel nostro Paese assisteremo ad un fenomeno nel quale convivranno realtà altamente tecnologiche gestite quasi interamente dalla robotica, a fianco di realtà con scarsi progressi tecnici ma con un sempre maggior contributo di lavoro umano, scarsamente valorizzato, protetto e retribuito.