Per migliaia di anni il mondo è progredito lentamente. Nel passato il tempo era scandito dagli eventi naturali, ci si svegliava al sorgere del sole e si andava a dormire al tramonto. L’uomo era per lo più stazionario, viveva in un posto dedicandosi alla coltivazione del terreno o alla pastorizia, e gli spostamenti erano limitati. Se si calcola che un uomo può percorrere a piedi 5 o 6 chilometri in un’ora, se ne deduce che il raggio d’azione giornaliero non superava i 30 chilometri. Successivamente, con l’utilizzo del cavallo, che può raggiungere i 30 chilometri orari, ha ampliato un po’ le percorrenze quotidiane, arrivando al massimo a un centinaio di chilometri. Per comprendere la lentezza con la quale si è evoluto il mondo basti pensare che nell’età del bronzo la vita media era di circa 20 anni (probabilmente anche nei secoli precedenti non è mai scesa al di sotto di 15 -20 anni, pena l’estinzione del genere umano), e ci sono voluti più di duemila anni e lo sviluppo dell’impero romano per portarla a 35 anni. In poco più di due secoli, con i progressi della medicina e dello stile di vita, siamo riusciti ad arrivare ad una vita media di 76 anni per gli uomini e 82 per le donne. Gli stessi esempi si potrebbero fare in tutti i campi. In pochi decenni abbiamo realizzato ciò che non è stato possibile per millenni, in una maniera che non avevamo minimamente previsto. Il motivo è semplice: tutto questo è stato possibile dalla rivoluzione industriale in poi, da quando si è passati dall’energia umana o degli animali all’energia del vapore prima e a quella elettrica ed atomica poi. Da allora i progressi si sono succeduti con una velocità esponenziale, e più si progredisce con la tecnologia più si diventa veloci. Il tempo non ha più lo stesso valore che aveva nel passato, e probabilmente un anno della nostra epoca equivale a più di un secolo dell’antichità. Oggi coloro che fanno ricerca sono meravigliati dalla celerità con la quale procedono, perché supportati da tecnologie altamente innovative e con percentuali minime di errore. Esistono sistemi che potrebbero stravolgere in pochi mesi la nostra vita, ma non vengono ancora diffusi perché devono essere testati e probabilmente perché non ci sono ancora le condizioni per inserirli nei contesti sociali. Insomma, a partire dalla prima rivoluzione industriale la nostra vita è cambiata radicalmente e lo sta facendo in maniera sempre più frenetica. In quel periodo nasce l’economia politica con Adam Smith che nel primo trattato scientifico intitolato Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, si chiede ciò che si evince dal titolo, e cioè se quell’enorme ricchezza prodotta è destinata a durare nel tempo. La risposta che gli economisti venuti dopo di lui hanno dato al quesito è positiva, infatti sono giunti alla conclusione che tra alti e bassi (che tecnicamente si definiscono cicli economici) nel lungo periodo la ricchezza è sempre cresciuta. Questo soprattutto grazie al sistema capitalistico, nel quale la libertà d’impresa e la concorrenza hanno permesso il progresso che conosciamo. Ma negli ultimi anni le cose non vanno più come dovrebbero, qualcosa è cambiato e le cause non sono del tutto chiare, perché sono tante e si confondono tra loro. Sicuramente il capitalismo sta soffrendo e non sembra si tratti di una più o meno breve fase ciclica, come le tante che si sono succedute negli anni. Sembra qualcosa di più serio, basti pensare che nella storia dell’umanità i figli hanno sempre vissuto meglio dei padri, c’è sempre stato un progresso, non solo in termini economici ma anche e soprattutto nella qualità della vita. Noi trenta/quarantenni abbiamo invertito la tendenza, siamo la prima generazione nella storia dell’umanità dove i figli stanno peggio dei genitori. Un record non da poco! In questo articolo analizziamo in maniera chiara uno dei motivi principali. Semplificando il concetto e andando al cuore del problema possiamo osservare che il capitalismo si regge su tre assi fondamentali: la produzione, il lavoro e il consumo. L’azienda produce e per farlo ha bisogno di manodopera, l’uomo lavorando riceve in cambio un compenso e con i soldi guadagnati acquista i beni prodotti dall’azienda, e il giro si chiude. Più beni si consumano e maggiore sarà la forza lavoro di cui avrà bisogno l’azienda che chiederà lavoro straordinario e assumerà altri dipendenti, che guadagneranno più soldi e consumeranno di più. Questo meccanismo per circa 200 anni è andato espandendosi creando un circolo virtuoso. Ad un certo punto il sistema si è bloccato e lo ha fatto in maniera irreversibile, perché è venuto a mancare uno dei tre assi fondamentali: il lavoro. Rispetto a questa situazione altamente complessa, ho individuato due tematiche importanti da analizzare. La prima la tratteremo in questo articolo, l’altra in un momento successivo, allo scopo di evitare confusioni. Possiamo iniziare con la constatazione che la tecnologia sta andando verso un mondo dove c’è sempre meno bisogno del lavoro umano, basta entrare in una fabbrica e rendersene conto. Il lavoratore è sempre più sostituito dalla robotica e dalla tecnologia, e mentre inizialmente lo era solo per i lavori poco qualificati, oggi si iniziano a progettare macchine che possono svolgere professioni con margini di errori molto inferiori a quelli umani. Inizialmente i “colletti blu” (operai) che perdevano lavoro perché sostituiti dalla tecnologia venivano riassorbiti nel settore dei servizi. Oggi iniziano ad essere sostituiti anche i “colletti bianchi”, e questo avviene sempre più spesso in molte professioni come ad esempio quelle del medico e dell’avvocato. Se a ciò aggiungiamo il fenomeno caratteristico della globalizzazione, che è la delocalizzazione del lavoro, il quadro è completo. Un esempio per tutti: nel 2004 alcuni ospedali degli Stati Uniti per abbattere i costi hanno iniziato ad inviare i test diagnostici digitali a medici indiani. Di questi esempi se ne possono fare tanti e nei i settori più disparati. Ma quello che ci interessa in questo ragionamento, è evidenziare il fenomeno del lavoro che è sempre più scarso, in una società dove la tecnologia sta sostituendo l’uomo, e dove non c’è alcuno studio che dimostri in maniera attendibile quello che i più ottimisti si ostinano a dichiarare: che i posti di lavoro scomparsi a causa della tecnologia siano stati sostituiti dai “nuovi lavori”. Per quello che mi riguarda, è vero che con l’innovazione stanno nascendo lavori nuovi che fino a qualche anno fa non esistevano, e lo stesso avverrà anche nel futuro, ma nessuno potrà mai convincermi del fatto che l’enorme numero di disoccupati sarà riassorbito nelle nuove professioni. A conferma di ciò che sostengo riporto un esempio emblematico: la Kodak, che chi appartiene alla mia generazione conosce bene, era una multinazionale che per decenni è stata leader nel settore della fotografia. Nel periodo del suo massimo splendore aveva 140 mila dipendenti; oggi è fallita, e al suo posto c’è Instagram, un social network fotografico che quando un paio di anni fa è stata acquistata da Facebook aveva 13 dipendenti. Nessuno può seriamente sostenere che quelle migliaia di persone si siano ricollocate nelle nuove professioni digitali. Di esempi come questo se ne possono fare tanti, ma il concetto credo sia chiaro, e osservando la società tecnologica e l’esponenziale crescita demografica mondiale non ci vuole un grosso studio per capire che questo sarà uno dei problemi che dovremo affrontare nel prossimo futuro. Ma l’aspetto più curioso in tutto il ragionamento è che nonostante si perdano posti di lavoro, la ricchezza generale aumenta. Quindi forse dobbiamo ricominciare a guardare il problema con occhi diversi e trovare nuove soluzioni. Perché il vero problema non è la creazione di ricchezza, ma la redistribuzione della stessa. Pensiamo solo che nel mondo siamo circa 7 miliardi e 400 milioni e ogni giorno produciamo cibo per 12 miliardi di persone, ma 826 milioni hanno problemi di fame. Questo significa che ogni giorno buttiamo cibo per circa 6 miliardi di persone. Infatti per un periodo ci siamo illusi che con il crollo del comunismo avevamo trovato nel capitalismo, che sembrava essere il modello vincente, la soluzione a tutti i problemi. Nella realtà, se è vero che il comunismo ha perso il confronto con il capitalismo, è altrettanto vero che il capitalismo non ha vinto. Il comunismo era un sistema perfetto per redistribuire la ricchezza ma con il limite di non saperla produrre, mentre il capitalismo è efficientissimo nel produrla ma non sa redistribuirla. Infatti dalla caduta del Muro di Berlino in poi è avvenuto sempre più spesso che la ricchezza si sia concentrata nelle mani di poche persone. A mio avviso, il verificarsi di questi fenomeni dovrebbe indurci nell’immediato a cambiare completamente modello culturale. Bisogna entrare in un’ottica nuova e comprendere che la ricchezza non è prodotta dal lavoro ma dalla produzione. Dovremmo rivalutare quello che cinquant’anni fa affermava Martin Luther King: “Bisognerebbe abolire la povertà per legge”. Non fu ascoltato, ma preso per un visionario sognatore, e tutte le teorie che si rifacevano a quel messaggio furono denigrate, considerate utopia. Oggi bisognerebbe ripartire da lì e costruire un mondo nuovo, con valori diversi. Dovremmo dare un significato nuovo alla parola lavoro, e programmare il tempo in maniera diversa. C’è bisogno di un notevole sforzo, ma bisogna iniziare a compierlo. Cambiare il paradigma è possibile, ma è necessario un enorme “lavoro” degli intellettuali per eliminare i tabù. Parlare di reddito minimo, come stanno facendo paesi come la Norvegia o il Brasile non è reato, né deve essere considerato deplorevole. Da noi ne sta parlando, a mio avviso con poca insistenza, il Movimento 5 stelle, ma è l’unico partito e forse non ne è così convinto. Questa tematica dovrebbe essere ai primi posti nei programmi di governo dei paesi industrializzati. Addirittura in Italia la politica del lavoro e quella industriale vanno in tutt’altra direzione. Non facciamo leggi che incentivano il part-time, anzi agevoliamo il lavoro straordinario perché ha un costo inferiore a quello ordinario, e addirittura allunghiamo l’età pensionabile. Peggio del nostro ci sono solo il modello Cinese e quello del Giappone, dove di recente hanno dovuto varare una legge per ridurre i morti a causa dell’eccessivo lavoro. Dovremmo al più presto invertire la rotta e iniziare ad occuparci della redistribuzione del lavoro. Dovremmo seguire l’esempio di paesi come Germania, Francia, Olanda, Austria, Norvegia e Danimarca, dove stanno applicando politiche volte a ridurre l’orario di lavoro per diminuire il numero dei disoccupati. A conferma di quello che affermo ci sono i dati che ci mostrano come in Italia, Grecia e Spagna si lavori annualmente dalle 1600 alle 2000 ore e c’è un tasso di occupazione inferiore al 60%, mentre nei paesi del nord Europa si lavora mediamente 300 ore in meno e il tasso di occupazione è uguale o superiore al 70%. Dovremmo iniziare a parlare e organizzarci per affrontare questi problemi invece di perdere tempo con diatribe inutili. Tornando agli assi fondamentali del capitalismo e alla loro interrelazione, se le persone percepiscono un reddito aumentano i consumi, di conseguenza le aziende dovranno aumentare la produzione e chiedere più lavoro, di conseguenza ci sarà più ricchezza disponibile e più consumo, innescando un circolo virtuoso. I cittadini avranno meno necessità e probabilmente si ridurrà il tasso di delinquenza e corruzione. Bisognerà insegnare a gestire meglio il tempo libero, perché ce ne sarà di più, e assumeranno una maggiore importanza gli hobby e la creatività, ma questo è un mondo che dovremmo iniziare a inventare perché potrebbe essere molto più vicino di quello che pensiamo.