Tutte le moderne democrazie si basano sul principio della tripartizione dei poteri descritto nel trattato Lo spirito delle leggi del 1748 dal filosofo francese Montesquieu. In realtà, nella cultura occidentale, l’idea di separare i poteri è molto più antica, risale alla Grecia classica e ne parlavano già Platone nel dialogo La Repubblica e Aristotele nella Politica. Ma con Montesquieu nasce la teoria moderna, cioè la necessità, non solo di dividere il potere, ma di affidarlo a soggetti diversi. Il filosofo francese parte dal presupposto che il potere non è un bene saziabile. A differenza dello stimolo della fame che con il cibo ad un certo punto viene placato, il desiderio di potere è come quello per il denaro, sembra non trovare mai un limite. Concetto non difficile da comprendere, dal momento che basta guardarsi intorno per vedere uomini ricchissimi e potenti perennemente in affanno e privi di un equilibrio, perché impegnati a migliorare la propria posizione. Montesquieu, studiando il modello costituzionale inglese, stabilisce che l’unica cosa in grado di limitare il potere è il potere stesso. Quindi propone la soluzione di dividere il potere in parti perfettamente uguali e autonome, e fare in modo che ognuna possa limitare e controllare l’altra, in una sorta di equilibrio perfetto. Nascono, così come li conosciamo, il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, affidati rispettivamente al Parlamento, al Governo e alla Magistratura. Nonostante i naturali cambiamenti avvenuti nei secoli, rimane basilare il principio secondo il quale il potere legislativo ha il compito di fare le leggi, l’esecutivo di eseguirle e il potere giudiziario di controllarne il rispetto. Sembrerà retorico ma questo concetto dovremmo scolpirlo nella pietra e posizionarlo nelle piazze, nelle scuole e nelle istituzioni di tutte le città, perché è così scontato che la maggior parte degli italiani lo ha dimenticato. Ma ancora più grave è che lo ha dimenticato anche gran parte della classe politica. Non è un caso che il primo articolo della Costituzione afferma, in maniera perentoria e irrevocabile, che “la sovranità appartiene al popolo”. In una democrazia indiretta quest’ultimo è rappresentato dal Parlamento, e ciò ci chiarisce l’importanza e la sacralità del luogo e dell’istituzione. Cosa succede se uno dei tre poteri prende il sopravvento? Che la democrazia entra in una situazione di pericolo, non funziona e si trasforma in qualcos’altro. Tutti ricordiamo quello che è successo in Italia a partire dal 1992 con la rivoluzione giudiziaria chiamata Tangentopoli che ha dato il via all’inchiesta Mani pulite, quando a causa della corruzione diffusa della classe politica ci fu un’ondata di arresti. In quel periodo si propagò nel Paese un clima di giustizialismo, e la stessa società che era consapevole e spesso coinvolta nella corruzione si scagliò dalla parte dei magistrati, dimenticando le proprie responsabilità e la propria connivenza. La classe dirigente del Paese fu quasi decapitata, e il conseguente indebolimento della classe politica originò un vuoto che, come è fisiologico, con il tempo è stato riempito. Così è accaduto che il potere giudiziario (che Montesquieu aveva definito: “nullo”, probabilmente per evidenziarne la neutralità), prese il sopravvento sul potere legislativo ed esecutivo. Da allora il ruolo del politico è stato delegittimato, a vantaggio del magistrato considerato la salvezza del Paese. La politica, che è o dovrebbe essere la forma più alta del pensiero, è stata declassata fino a divenire sinonimo di corruzione. Così ha preso il via uno scollamento tra la società e la politica, che oggi conosciamo bene, e che diventa sempre più forte. Infatti accade sempre più spesso che i politici, che per antonomasia dovrebbero essere i “migliori” della società, scelti dal popolo per gestire la cosa pubblica, siano dei “mediocri” che utilizzano la politica ai fini di un’ascesa sociale. Il fine della politica non è più il bene comune, ma la sistemazione individuale. Ma tornando al periodo di Mani pulite, come ho già accennato, con il sopravvento del potere giudiziario cambiarono i paradigmi, e quest’ultimo potere sconfinò negli altri due. In quel periodo non era necessaria la condanna dell’inquisito, ma bastava un semplice avviso di garanzia per delegittimare un politico e renderlo impresentabile. Soltanto il sospetto di essere responsabile di un reato equivaleva a una condanna definitiva, in un sistema che affidava ai media e alla popolazione il potere di emettere “sentenze” di condanna sociale senza possibilità di appello. Tanti sono i casi di individui, vittime del “tritacarne” mediatico-giudiziario, che si sono tolti la vita o che hanno subito l’emarginazione politica e sociale perché dichiarati impresentabili, risultati innocenti alla fine del processo. Ma l’assoluzione non faceva notizia, perché il paradigma garantista secondo il quale è meglio un colpevole libero che un innocente in prigione si era capovolto, e per tutti o quasi, era meglio un innocente in prigione che un colpevole libero. In una sorta di delirio collettivo, si era costantemente alla ricerca del colpevole, mettendo in discussione l’istituto dell’ “immunità parlamentare”, introdotto dai padri costituenti per evitare che il potere giudiziario o quello esecutivo potessero limitare o condizionare il legislativo. Ma la sete di giustizia e la voglia di vendetta erano così forti che dell’immunità si metteva in luce solo il lato negativo, considerandolo solo un privilegio che permetteva ai politici di delinquere senza il timore di essere condannati e, a onor del vero, in molti casi è stato e continua ad essere così. Si arrivò ad osannare la magistratura al punto tale che i giudici, i quali per la delicatezza del lavoro che svolgono dovrebbero rimanere fuori del ciclone mediatico, divennero delle star televisive, ed essendo “umani” mostrarono le debolezze che tale condizione comporta, lasciandosi tentare in molte occasioni dal narcisistico bisogno di popolarità. Divennero famosi, sempre presenti in televisione, e in alcuni casi come quello di De Magistris e Antonio Ingroia, lasciarono la magistratura per entrare in politica. Il più noto tra tutti, Antonio Di Pietro, fondò addirittura un partito. Altri, più “italiani,” non si sono mai dimessi ma hanno semplicemente preferito ricorrere all’aspettativa mentre svolgevano la loro attività politica. Da allora l’azione politica, mancando di profondità di pensiero, ha puntato tutto sulla legalità. L’onestà che in realtà dovrebbe essere un prerequisito, importante ma scontato per svolgere qualsiasi incarico ed in modo particolare un incarico pubblico, è divenuta l’unica caratteristica richiesta. A mio avviso, da un politico non bisogna solo aspettarsi che sia onesto ma che abbia la capacità di mediare, di discutere, trovare la soluzione migliore ai problemi della società, di essere coraggioso e di guardare al futuro. L’onestà dovrebbe essere una caratteristica scontata, e non divenire il cuore della battaglia politica e propagandistica. Partendo dal presupposto che tutti i politici dovrebbero essere onesti, noi dobbiamo scegliere quelli migliori, che hanno cultura, idee e progetti per il futuro. Invece, a partire da quegli anni, l’unico parametro o il principale per scegliere i politici è quello dell’onestà. E i partiti pronti a fiutare il vento, hanno fatto di questa caratteristica la loro ragione d’esistere, dimenticando l’ammonimento di Pietro Nenni ai giovani socialisti: “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Emblematico è stato il caso di Antonio Di Pietro, che ad un certo punto era diventato per molti il “salvatore della patria”, ed è bastata una puntata di una trasmissione televisiva (Report), per avviare la distruzione del suo “castello”. Nel volgere di pochissimo tempo è scomparso dalla scena politica. È bastato metterne in dubbio l’onestà. Oggi questa concezione giustizialista anche se attenuata è rimasta nell’opinione comune, e tutti i partiti e i movimenti politici sbandierano la loro onestà come un mantra. Il compito di noi cittadini, al quale dobbiamo lavorare dal basso, dalla quotidianità, è ricostruire un Paese dove l’onestà non faccia notizia, e nessuno la debba usare come bandiera per le proprie battaglie. Ma dalla deriva giustizialista iniziata con Tangentopoli, caratterizzata da uno squilibrio a favore del potere giudiziario, da circa un decennio in quasi tutte le democrazie occidentali si sta verificando sempre più rapidamente un altro squilibrio: un eccessivo peso dell’esecutivo a discapito del potere legislativo. Ormai da più parti si sente parlare di “esecutivi forti” che hanno necessità di prendere decisioni immediate. Alle parole d’ordine “giustizia” e “onestà” che prevalevano incontrastate qualche anno fa, ora si va ad affiancare, e qualche volta a sostituire, quella di “governabilità”: tutte le riforme proposte sono volte a garantire governi forti in grado di decidere senza grossi intoppi. I parlamenti sono visti come un intralcio perché rallentano la presa di decisioni, e vige il principio dell’uomo forte, del leader carismatico che risolve i problemi. Sempre più spesso sentiamo ripetere “ce lo chiede l’Europa”, emblematica in questo caso è la famosa lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011. Jean-Claude Trichet, allora presidente della Bce, e Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, inviarono una lettera all’allora Presidente del Consiglio Italiano Silvio Berlusconi, perché lo spread continuava a salire e le società di rating continuavano a declassarci in quanto non ci ritenevano in grado di onorare il debito pubblico. Il commissariamento da parte della Troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea) sembrava inevitabile. Nella comunicazione si elencavano le misure che l’Italia avrebbe dovuto adottare a stretto giro, con ricette liberiste che prevedono governi forti. Ma quello che ci interessa in questa riflessione non sono i contenuti della lettera, ma ciò che ha rappresentato il gesto. Quella lettera è stata la prova e l’emblema della stretta interconnessione tra il potere economico-finanziario e quello politico. I vertici delle grosse banche internazionali e gli speculatori finanziari hanno bisogno di governi stabili e decisionisti, perché i mercati devono essere rassicurati. Questo modello è in antitesi con il principio di rappresentanza, perché il parlamento è lento e spesso anche imprevedibile, perché decide a maggioranza. Questo pensiero in Italia ha partorito la legge elettorale Calderoli, meglio conosciuta come “Porcellum” approvata il 21 dicembre 2005, nella quale è stato completamente declassato il ruolo politico dei parlamentari. Purtroppo l’esercizio della democrazia è faticoso, è un traguardo difficile da raggiungere, ma è l’unico obiettivo verso il quale tendere. Dobbiamo essere cittadini attivi, sempre attenti a non lasciarci lusingare dagli slogan e dalle false promesse, e a chi ci dice che c’è bisogno di governabilità dobbiamo prontamente rispondere che abbiamo ancora più bisogno di partecipazione. Abbiamo la necessità di riscoprire la bellezza della politica, di sentirci onorati di occuparci della cosa pubblica. Ma perché ciò avvenga, non sono richiesti gesti eclatanti, sarebbe sufficiente partire dal quotidiano, perché facciamo della buona politica se compiamo il nostro dovere e ci interessiamo a quello che ci succede intorno. Non è necessario ricoprire un ruolo istituzionale, ci possiamo e dobbiamo occupare di politica controllando i governanti, e apportando il nostro contributo al dibattito pubblico.