La maggior parte delle opere pubbliche del nostro Paese è stata realizzata nel periodo del boom economico, quello che lo storico inglese Eric J.Hobsbawm ha definito “l’età dell’oro”, che va dalla fine degli anni 40 agli inizi degli anni 70. Gli anni degli sprechi, delle ruberie ma anche degli investimenti e della crescita. Da allora c’è stato un progressivo rallentamento dell’intervento pubblico e degli investimenti, fino ad arrivare all’attuale immobilismo. Abbiamo abbandonato la politica keynesiana d’intervento dello Stato nell’economia per applicare quella liberista, ispirata dall’economista austriaco Friedrich von Hayek. Il percorso lo abbiamo concluso con l’ingresso nell’euro, rinunciando alla sovranità monetaria e sottoscrivendo degli accordi, alcuni dei quali inseriti addirittura nella Costituzione, che hanno condizionato e limitato il margine di manovra dei governi nazionali. Paragonando lo Stato alla famiglia, abbiamo accettato il dogma del pareggio di bilancio, e quindi il contenimento delle spese per ridurre il deficit. Negli ultimi anni in nome della riduzione del debito pubblico (che in realtà è aumentato) e del timore della corruzione, abbiamo rinunciato non solo a investire in opere pubbliche ma anche a manutenere quelle esistenti. Un Paese immobile, con politici che si agitano solo di fronte alle telecamere. Al concetto di austerità, parola d’ordine da offrire come soluzione a qualsiasi problema, è stato affiancato il mito dell’iniziativa privata, contrapposto al pubblico diventato sinonimo di inefficienza, spreco e corruzione. In nome di sacrifici irrinunciabili, ai quali sottoporci per redimerci ed espiare i peccati con la speranza di uscire dalla crisi, da quasi un ventennio accettiamo passivamente politiche di tagli alla spesa pubblica e alla nostra dignità. Nessuno si scandalizza più per la mancanza di risorse pubbliche e per la decadenza dell’immenso patrimonio nazionale. È diventato normale che chiudano ospedali, che le scuole cadano a pezzi, che crollino ponti e viadotti, che franino le strade rendendo irraggiungibili intere zone del Paese, che le forze dell’ordine non abbiano benzina per le automobili e che non ci siano assunzione né adeguamenti di stipendi nel pubblico impiego. Siamo arrivati al paradosso per cui un Sindaco invece di protestare per la mancanza di finanziamenti, sostiene che i comuni non devono risarcire i danni causati dalle buche stradali perché gli abitanti sono tenuti a conoscerle. L’investimento pubblico invece di essere considerato volano per la ripresa economica è considerato spreco da eliminare, e si aspetta passivamente una ripresa che non si capisce da dove debba provenire. Non si comprende che il debito dello Stato è la ricchezza dei cittadini, che con ingenti finanziamenti pubblici (stanziati in deficit) si può rimettere in sicurezza un Paese che sta cadendo a pezzi e ridare dignità a un popolo sfiduciato. Anche di fronte alla verità siamo talmente imbevuti di ideologia neoliberista che riteniamo indiscutibili le scelte effettuate, ritenendo irrealizzabile e deridendo qualsiasi altra proposta di risoluzione dei problemi. Come spettatori in un cinema assistiamo immobili e inermi allo spettacolo indecoroso del crollo della Nazione più bella del mondo.
Condivido perfettamente parola per parola il tuo pensiero e mi voglio augurare che da questo “letame” possano presto nascere “fiori” da lasciare in eredità ai nostri figli, visto che dai “diamanti” degli anni d’oro di concretamente positivo c’è stato realmente ben poco, solo specchietti per le allodole.
Ciao Roberta, credo che la situazione sia davvero complicata. Diciamo solo che ognuno, per quello che può, dovrebbe fare la sua parte.