Abbiamo visto cos’è il quantitative easing; illustrato le nobili intenzioni di Mario Draghi di portare l’inflazione vicino al 2 per cento e cosa questo significhi. Ma dobbiamo constatare che dopo anni di tentativi, si stenta a raggiungere l’obiettivo. Le opinioni del mondo della politica a riguardo sono diverse, ma l’impressione è che ognuno parli per partito preso, senza conoscere la problematica e solo per accrescere il consenso personale. Fortunatamente, non ho bisogno di voti, pertanto quello che scrivo è frutto di studio e riflessione personale, quindi potrete non essere d’accordo ma non mettere in dubbio la mia buona fede. Detto ciò, come anticipato negli articoli precedenti vi illustro la mia idea sul perché il quantitative easing in tutti questi anni non ha funzionato come si sperava. Perché, nonostante abbiamo immesso nel mercato migliaia di miliardi di euro, l’economia non sia ripartita. Dopo tutto questo tempo, forse, dovrebbe sorgerci il dubbio che la teoria alla base di questo strumento di politica economica, nonostante sia quella dominante e insegnata nelle più prestigiose università, non sia esatta. Anche se ho usato il condizionale, in realtà sono certo di ciò che sostengo, cioè che avevano ragione gli economisti della scuola di Cambridge e soprattutto aveva ragione J.M. Keynes. Il fatto che oggi la sua scuola di pensiero, nonostante ci abbia tirato furi dalla tremenda crisi del 1929, non sia più in voga, non significa che sia inesatta e inattuale. Purtroppo, non è difficile constatare che sempre più spesso le scelte politiche siano indirizzate non dalla parte del giusto ma dell’interesse e, purtroppo, queste due cose raramente coincidono. Ricordiamo che Keynes sosteneva l’inesattezza della teoria quantitativa della moneta dell’economista americano Irving Ficher, secondo la quale: “un incremento della quantità di moneta circolante determina un proporzionale aumento del livello generale dei prezzi e una diminuzione del potere di acquisto della moneta”. A qualcuno potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma oggi la politica economica dell’Europa è basata su questa teoria e, fino a quando non ci sarà qualcuno che la metterà seriamente in discussione, potremo cambiare tutti i governi che vogliamo, ma non muteremo la sostanza delle cose. Basta prendere un qualsiasi testo di economia per verificare che Keynes criticava la teoria quantitativa di Fischer perché, a differenza di quest’ultimo, sosteneva che normalmente il sistema economico si trova in “posizione di equilibrio di parziale disoccupazione dei fattori produttivi” e quindi un aumento della moneta in circolazione non determina necessariamente una lievitazione dei prezzi ma, se la domanda è elevata e ci sono fattori inutilizzati, un aumento della produzione. Forse detta così potrebbe apparire complicata ma, se avete la pazienza di continuare la lettura, vi renderete conto che non lo è. Basta guardarsi intorno e riflettere un attimo, oppure, se non avete tempo, basta scendere al bar sotto casa e ascoltare discori che si fanno per rendersi conto che oggi sul mercato c’è un eccesso di offerta, cioè si producono più beni e servizi rispetto a quanti se ne consumano. Basta un altro piccolo sforzo per comprendere che in una tale circostanza immettere più moneta in circolazione, come stiamo facendo, non aumenta nell’immediato la domanda di beni e servizi. In una situazione di incertezza e di precarietà, i soldi in più non vengono spesi ma messi da parte e le banche preferiscono non fare prestiti perché il rischio insolvenza è troppo alto. Quindi, nel breve periodo, è più facile che ci sia un incremento della produzione e degli scambi che un aumento dei prezzi. Ma non basta, nel 2012 con l’operazione LTRO la Banca Centrale Europea ha prestato alle banche commerciali miliardi di euro al tasso dell’1 per cento ma, nonostante questo forte iniezione di liquidità, le banche non hanno voluto finanziare le piccole e medie imprese che avevano necessità di credito perché avevano un rating basso, mentre erano disposte a fare prestiti ai grossi gruppi industriali con rating elevati, che però non avevano bisogno di soldi perché, in una situazione di incertezza, non volevano investire. Allora, le banche commerciali hanno preferito rifugiarsi nel meno redditizio ma più confortevole acquisto di titoli di Stato. Dopodiché, nel 2015, con il quantitative easing la Bce ha prestato denaro (con i ritmi che conosciamo) direttamente alle banche centrali, le quali a loro volta hanno riacquistato i titoli di stato insieme a titoli tossici dalle banche commerciali. Quindi, queste imponenti operazioni, che avrebbero dovuto risollevare l’economia, hanno prodotto come unico risultato quello di riempire di soldi le casse delle banche e mantenere in rosso i conti delle aziende e dei cittadini. A questo punto è lecito chiedersi: ma se si voleva provocare un effetto sull’economia reale, non sarebbe stato più efficace canalizzare i soldi direttamente nelle tasche dei cittadini e nelle casse delle aziende invece di arricchire le banche? Inoltre, va precisato che la Bce non ha il controllo totale dell’emissione monetaria, basta pensare che quando spendiamo, nella maggior parte dei casi, non utilizziamo banconote ma moneta bancaria: assegni, carte di credito, bonifici eccetera. Mezzi di pagamento, questi ultimi, che non sono gestiti dalla Bce ma dalle banche commerciali. Si calcola che le compravendite eseguite con le banconote ammontano a circa il 7%, tutto il resto è moneta bancaria. Un ultimo tassello da aggiungere è che soltanto il 20 per cento degli acquisti dei titoli di Stato sono garantiti dalla Banca centrale europea e quindi hanno un rischio condiviso, mentre il restante 80 per cento è garantito dalle banche centrali dei Paesi acquirenti. Ciò significa che, a dispetto della sbandierata solidarietà dell’Unione europea, ogni Paese finanzia i propri debiti e se ne assume le responsabilità. Inoltre, ricordiamoci che l’istituzione europea prevede una politica monetaria comune tra i Paesi membri, mentre la politica fiscale è in capo ad ogni Stato. Non è necessario un grosso intuito per comprendere che sarebbe opportuno, in modo particolare in un momento di crisi come quello attuale, che ci fosse un’unica politica economica che, in maniera anticiclica, viaggiasse verso un’unica direzione. Sarebbe indispensabile porre in essere una vera politica espansiva invece di stare a fare i ragionieri e pesare gli zero virgola. Invece, in Europa da un lato abbiamo una politica monetaria espansiva gestita dalla Bce, e dall’altro una politica fiscale in mano ai vari Stati che, nella maggior parte dei casi, va nel senso inverso. Continuando a opporsi al coordinamento delle due politiche per combattere la deflazione, si continua ad affrontare una guerra poderosa con un’arma poco efficace. Di osservazioni ce ne sarebbero altre ma, a mio modesto parere, queste sono le più importanti. Chiudo con un’ultima precisazione: i contributi a pioggia gettati metaforicamente con l’elicottero non producono gli effetti sperati. Un incremento di moneta, in una situazione come la nostra, è una condizione necessaria ma non sufficiente, perché a fianco della moneta è necessario avere una politica che progetti per indirizzare la spesa in investimenti. Sono indispensabili investimenti seri e non propagandistici nei vari settori strategici, tra i principali: infrastrutture, ricerca, industria e politica ambientale. Solo un massiccio, dettagliato e serio programma di investimenti pubblici produrrebbe ricchezza che si riverserebbe moltiplicata nell’economia reale.