Continuiamo con la trattazione della tematica del debito pubblico, argomento che sta al centro di ogni dibattito e che determina le scelte dei governi. Abbiamo già visto come viene utilizzato per giustificare lo smantellamento dello stato sociale tramite le politiche dell’austerità, e che la sua esplosione, in pochi anni, non è stata casuale ma il frutto di una precisa volontà politica. Visto che si tratta di un meccanismo infernale che ci sta portando alla rovina è un dovere parlarne e capirne di più. Bisogna cercare di risvegliare le coscienze, ormai sopite da un mondo diventato troppo complicato e che ci induce ad affidarci a chi, pensiamo, ne sa più di noi. Ma, nella maggior parte dei casi, la classe politica non comprende alcune tematiche e perseguendo unicamente il proprio interesse segue le direttive impartitegli da chi gli ha permesso di raggiungere il proprio status, mentre una buona parte dei pochi competenti è complice del sistema perché proviene da quel mondo finanziario che ormai ha saldamente in mano le redini del gioco. Se è vero quello che ho scritto, e cioè che per un debito pubblico di oltre 2 mila e 300 miliardi di euro abbiamo pagato interessi per oltre 3 mila e 300 miliardi mentre il debito continua a crescere, perché non dovremmo avere il dubbio che ci sia qualcosa che non va? Con l’attuale legge di bilancio, con la quale ci illudiamo di sconfiggere la povertà, abbiamo solamente scimmiottato ciò che avrebbe dovuto essere la strada giusta: una politica economica espansiva. In realtà ci è mancato il coraggio di andare fino in fondo perché ci siamo resi conto di quanto siamo ricattabili, succubi di un potere mediatico-finanziario che ci tiene sotto scacco. Con questa manovra di bilancio l’Istat e l’Ocse prevedono una crescita dello 0,9 per cento per i prossimi due anni; ma anche se fossero sbagliate queste stime e fossero giuste quelle del governo, che prevedono una crescita dell’1,5 per cento, sarebbe comunque insufficiente per uscire dal meccanismo del quale siamo prigionieri. Per avere qualche possibilità di liberarci dal giogo del debito dovremmo iniziare a crescere a tassi come quelli della Cina e dei Paesi emergenti ma, come è facile immaginare, non c’è alcuna possibilità che ciò avvenga nei prossimi decenni. Allora, mi chiedo, non sarebbe il caso di capirci qualcosa in più? Credo che se si eredita un debito che condiziona la propria vita, si abbia il sacrosanto diritto di conoscere e capirne le origini, le cause e le motivazioni, e agire di conseguenza. Iniziamo con il dire che se c’è un debito da qualche parte deve esserci un credito. E siccome stiamo parlando di debito pubblico, cioè di debito dello Stato, allora ci deve essere un creditore pubblico. Chi è? Inoltre, perché lo Stato si indebita? Domande apparentemente banali ma delle quali pochi conoscono le risposte, oppure conoscono le risposte ufficiali, che non sono quelle corrette. Infatti, cresciamo le nuove generazioni incutendogli timori e sensi di colpa, ripetendo loro che si nasce già indebitati, con un passivo pro-capite (compreso neonati) di circa 32 mila euro. Questi dati, che ascoltiamo quotidianamente, non sono frutto di fantasia di menti perverse, ma sono “correttamente” riportati dai maggiori organi di stampa. Il problema è che riportano soltanto una parte di verità e non analizzano il problema nella sua complessità. Ed è facilmente intuibile che riportare soltanto una parte di verità equivale a dichiarare il falso. Ma se il nostro Stato è indebitato, è fondamentale sapere a chi deve questa enorme cifra, perché se, come dovrebbe essere, i creditori siamo noi cittadini, non ci sarebbe alcun problema. Infatti, il debito dello Stato corrisponderebbe al credito dei suoi cittadini, e allora tutto si risolverebbe in una partita di giro. E come se in una famiglia la moglie si indebitasse con il marito, è vero che da una parte ci sarebbe un debito e dall’altra un credito, ma è anche vero che la ricchezza complessiva della famiglia non varierebbe. Così sui nostri manuali di economia leggiamo che lo Stato ha bisogno di fondi per mantenere in vita la propria organizzazione, così chiede soldi ai cittadini e a scadenze prestabilite glieli restituisce con i dovuti interessi. Ma allora se fosse così, quale sarebbe il problema? Il debito dello Stato corrisponderebbe alla ricchezza dei cittadini, e più uno Stato è indebitato, maggiore sarebbe la ricchezza dei cittadini. Questo è quello che più o meno succede in Giappone dove c’è il più alto debito pubblico del mondo, circa 8 mila miliardi di euro, che corrisponde al 250 per cento del Pil. Il 90% del debito giapponese è in mani nazionali e quindi quella nipponica rimane un’economia solida. Allora, forse, le cose non stanno proprio così come ce le raccontano; la stabilità di un Paese non dipende dall’entità del debito, anzi, spesso i Paesi che non hanno debito pubblico, o dov’è molto basso, hanno una economia flebile. Nella realtà non esiste una cifra limite o, per dirla meglio, non è l’entità del debito a determinare la situazione economica di un Paese, mentre è molto più importante sapere chi detiene i titoli del debito pubblico. Perché se i titoli sono detenuti all’interno del proprio Paese non si corre alcun rischio, mentre la situazione diventa pericolosa se sono nelle mani di Stati e speculatori esteri. Quindi, invece di ribadirci quotidianamente l’entità del debito pubblico, farebbero bene a spiegarci chi detiene i nostri titoli di Stato. Se andiamo a fare una breve ricerca, ormai su internet è tutto a portata di mano, ci rendiamo conto che la nostra situazione non è poi così drammatica, anzi, stiamo meglio di alcuni Paesi considerati virtuosi. Infatti, il debito pubblico italiano è in mani internazionali per il 36 per cento, mentre la restante parte è detenuta internamente al Paese. Invece la Francia, ad esempio, ha il 56 per cento del debito in mani internazionali mentre il 44 per cento è interno. In realtà anche la Germania ha un elevato debito pubblico in mani estere, pari al 58 per cento; così come gli Stati Uniti d’America il 31,2 per cento, percentuale vicina a quella italiana. Ma questi due ultimi casi sono diversi rispetto agli altri, infatti, trattandosi di due economie forti, i loro titoli di stato vengono acquistati, più che dagli speculatori internazionali, dalle banche centrali dei paesi emergenti al fine di ricostruire riserve valutarie. Tornando alla situazione italiana, per capire qualcosa in più non basta dire che il 64,1 per cento è posseduto internamente al Paese, ma bisogna vedere da chi è composta questa percentuale e com’è suddivisa. Così ci si rende subito conto di quale sia il problema, infatti soltanto il 5,2 per cento del debito è nelle mani dei cittadini, mentre la restante parte è posseduta dalle banche e dai gruppi finanziari; e precisamente: il 19 per cento è detenuto dalla Banca d’Italia, mentre il 39,8 per cento e nelle mani di banche, assicurazioni e fondi pensione italiani. Cioè, per dirla meglio, solo una piccola parte del debito pubblico è nelle mani dei cittadini italiani che hanno investito i propri risparmi prestando soldi allo Stato, mentre la maggior parte è nelle mani di speculatori internazionali e gruppi finanziari, nazionali e sovranazionali, che hanno causato la disastrosa crisi nella quale siamo immersi. Enormi gruppi bancari che invece di fare il proprio lavoro, quello di intermediazione tra creditori e debitori, hanno creato l’economia del debito basata sulla speculazione finanziaria. Quindi, in questi anni, dopo aver pagato miliardi di interessi, probabilmente dovremmo sentirci meno in colpa ed iniziare a mettere in discussione un sistema che punta a renderci debitori a vita. Come successe alla Germania dopo la seconda guerra mondiale (per non dilungarci troppo ne parleremo dettagliatamente in un prossimo articolo), quando non riuscendo a ripagare gli enormi debiti di guerra si vide abbonare dai creditori una grossa parte degli stessi con dilazione dei pagamenti. Oggi, a mio parere, in Italia dovremmo fare un ragionamento analogo e trovare una via d’uscita realistica dalla situazione attuale. Invece, schiacciati dalla pressione del debito pubblico, stiamo mettendo in atto una serie di politiche mortificanti che stanno spegnendo la vivacità della nostra economia; inoltre stiamo scaricando il peso del debito sulle comunità locali: regioni, province e soprattutto i comuni. Questi ultimi dal 2010 ad oggi hanno incrementato le imposizioni fiscali di oltre 8 miliardi di euro ma, nonostante ciò, nelle proprie casse hanno oltre 6 miliardi in meno. Perché lo Stato tramite il patto di stabilità, e altre misure come ad esempio la spending review, ha prelevato molto più di ciò che ha distribuito. Quindi, le spese per il rimborso degli interessi sul debito pubblico sono ricadute direttamente sui cittadini, i quali continuano a pagare le imposte più svariate senza ricevere in cambio servizi adeguati. Essendo questi meccanismi abbastanza complessi, le istituzioni dovrebbero impegnarsi a spiegarli adeguatamente, invece ciò non avviene e si preferisce lasciar ricadere la colpa su problematiche generiche che potremmo definire sempreverdi, quelle che vanno bene per spiegare tutto, come ad esempio gli sprechi e la corruzione, che pur ci sono ed è impossibile negarli, ma è anche vero che ci sono sempre stati e non ci hanno impedito di essere una delle maggiori potenze mondiali. Infine, per concludere, veniamo ad un altro aspetto fondamentale, a un’anomalia che è solo dei paesi dell’Unione europea. Questi ultimi si ritrovano un debito pubblico, più o meno alto a seconda dei casi, in una moneta straniera. Questa affermazione a qualcuno potrebbe suonare bizzarra, invece è assolutamente e tragicamente vera. Tutti i Paesi al mondo hanno una Banca centrale che stampa la moneta che i cittadini spendono e con la quale pagano le tasse. La Banca centrale di questi paesi ha la funzione di prestatrice di ultima istanza, cioè una funzione di garanzia. In caso di mancanza di liquidità la Banca centrale, a costo zero, stampa moneta con capacità illimitata, e questa caratteristica impedisce alla speculazione finanziaria di attaccare il Paese. Ciò è vero con il dollaro negli Stati Uniti, con il renminbi in Cina, con lo yen in Giappone, con la sterlina in Inghilterra e in tutti gli altri paesi del mondo. È stato vero anche da noi fino ai primi anni 2000, ma con l’ingresso nell’euro non è stato più così perché abbiamo adottato una moneta appartenente ad un’entità sovranazionale non ben definita; pertanto ciascun Paese dell’Ue acquista euro presso la Banca centrale europea come acquistasse una qualsiasi moneta straniera. Gli Stati non potendo più stampare moneta, ma dovendola acquistare, sono diventati vulnerabili e sono continuamente minacciati dagli speculatori, i quali se vendono in blocco titoli del debito pubblico possono determinare il default di un Paese. C’è da aggiungere che la Banca centrale europea non può vendere gli euro direttamente ai cittadini ma deve passare per le banche commerciali. Queste ultime, facendo il proprio lavoro, acquistano ad un tasso e rivendono a cittadini e imprese a un tasso più alto, lucrando sulla differenza. Ma in questi anni di crisi è successo che le banche, diffidando delle capacità di rimborso di privati e aziende, hanno preferito non prestare soldi, acuendo così la crisi, ma investirli nei più sicuri titoli del debito pubblico. E, come su accennato, trovandoci in una unione di stati a dir poco anomala, dove i titoli di stato invece di avere un unico rendimento hanno un rendimento diverso da paese a paese, a seconda della stabilità economica dello stesso, le istituzioni finanziarie preferiscono investire le proprie liquidità sui titoli dei paesi a rischio, i quali sono costretti a garantire interessi più alti. Come abbiamo visto, il caso greco a tal proposito è emblematico. Quindi, gli stati dell’unione hanno perso la sovranità monetaria e le banche centrali nazionali hanno perso la funzione di garanzia come prestatrici di ultima istanza. Così siamo completamente in balia dei mercati e delle decisioni della Banca centrale europea, una istituzione privata guidata da persone non elette dal popolo, che potrebbe decidere in qualsiasi momento di chiudere i rubinetti. La prova pratica della forza di ricatto di una unione europea così strutturata l’abbiamo avuta qualche anno fa in Grecia, quando il popolo ribellandosi ha eletto un governo di rottura. Ma la rivoluzione non è mai iniziata, perché il governo greco dopo qualche tentativo di ribellione si è dovuto subito assoggettare al sistema per non finire in default. D’altronde è quello che, anche se in maniera più soft, stiamo vivendo negli ultimi mesi in Italia dove il governo, definito del “cambiamento”, sta prendendo consapevolezza della realtà e pur facendo la voce forte, nei fatti sta cambiando atteggiamento. Insomma, siamo prigionieri di un debito impagabile, utilizzato come forma di ricatto per imporci politiche decise non democraticamente. E si sa, il creditore, come il cliente, ha sempre ragione.