Nell’articolo la rana indebitata abbiamo iniziato ad analizzare il concetto di debito pubblico, ora facciamo un piccolo passo avanti e vediamo meglio di cosa si tratta. Non c’è momento della giornata in cui non sento qualcuno ripetere preoccupato l’ammontare del nostro debito e dedurne che non possiamo fare altro che eseguire il diktat europeo. Non abbiamo scelta, secondo la vulgata comune siamo stati incapaci di gestire il nostro Paese e ora dobbiamo ascoltare chi è più bravo di noi e ci spiega come uscire da questa situazione. Nella realtà, per fortuna, siamo dei bontemponi e i nostri politici hanno sempre trovato il modo di eludere le direttive impartiteci, anche se non lo hanno mai ammesso pubblicamente. L’unico che ha eseguito alla lettera le politiche dell’austerità è stato Mario Monti, con i risultati disastrosi che conosciamo. Ma Monti, come abbiamo detto, viene da quel mondo, è figlio di quel pensiero economico e non ha fatto altro che seguire ciò che è il suo credo economico. Il problema è che dovremmo iniziare a dubitare di chi con la scusa di volerci salvare in realtà vorrebbe colonizzarci. Dovremmo iniziare a credere un po’ di più nelle nostre capacità e, pur con tantissime cose da migliorare, dovremmo trovare la forza e il coraggio di invertire la rotta. Anche se il lavoro preliminare che andrebbe fatto, e del quale parleremo prossimamente, è quello di lavorare seriamente e in profondità sulla mancanza di senso civico degli italiani. Ora, invece, iniziamo dalle questioni un po’ più pragmatiche ma altrettanto importanti. Allora, cos’è questo debito pubblico, quando è nato e perché e diventato così insostenibile da precluderci la libertà? Sono tante le cose da dire e, per rendere tutto più chiaro, tratteremo i singoli aspetti separatamente. Iniziamo con il dire che il debito pubblico, così come riportato in un qualsiasi testo base di economia politica, è il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti economici (individui, banche o Stati esteri) che hanno sottoscritto un credito allo Stato mediante l’acquisto di titoli di stato. In sintesi estrema questi soggetti economici hanno prestato soldi allo Stato, e hanno il diritto di ricevere indietro le somme oltre i dovuti interessi maturati. Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, se non fosse che ci sono delle cose che non ci vengono dette: la prima è che il debito pubblico non verrà mai pagato; la seconda è che è arrivato ad un livello tale per una precisa volontà politica. Dimostrare la prima affermazione è semplice, il nostro debito pubblico è di 2331 miliardi di euro, pari al 131.8% del Prodotto Interno Lordo, e con l’attuale crescita economica del nostro Paese (e quella dei prossimi anni) non abbiamo la minima possibilità di ripagarlo. Inoltre non è interesse di nessuno che ciò avvenga, o per lo meno non è interesse dei creditori. Ormai la maggior parte dei titoli del debito pubblico è posseduta dalle banche e dai grossi gruppi finanziari e, come la logica ci suggerisce, l’interesse del creditore è che il prestito duri il più a lungo possibile, così da lucrare sugli interessi ed esercitare potere di condizionamento sul debitore. Ora, veniamo alla seconda affermazione: qual è stata la volontà politica che ha determinato questa situazione? Basta avere qualche rudimento di storia economica per svelare l’arcano. Bisogna pensare che quando nel 1860 è nato lo Stato italiano il debito pubblico non esisteva, è cresciuto negli anni come è normale che sia per uno Stato sovrano, e si è arrivati al 1980 che era intorno al 60 per cento del Prodotto Interno Lordo. Una percentuale assolutamente ragionevole, anche se nella realtà non c’è nessun limite certo fissato dalla scienza economica. Comunque il rapporto del 60 per cento è ritenuto accettabile da tutti i Paesi europei, tant’è che è stato inserito come limite nei parametri di Maastricht e requisito necessario per far parte dell’Unione monetaria. Ma improvvisamente, nell’arco temporale di poco più di dieci anni, è cambiato tutto, il debito è esploso e ci siamo ritrovati al 1993 che era arrivato più o meno ai livelli attuali: il 120 per cento del PIL. È cosa è successo in poco più di dieci anni che ha fatto esplodere il debito pubblico? Semplice, seguendo la solita tesi che vuole l’Italia incapace di autogestirsi, si è preferito fare delle scelte che avrebbero educato il nostro paese e la sua classe dirigente. C’è stato un accordo dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta con il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. È importante sottolineare che questo accordo non è stato mai ratificato dal parlamento, ma si è concretizzato con un semplice patto bilaterale. Una decisione che ha cambiato radicalmente le sorti economiche del Paese determinandone le scelte future, che non è passata per l’organo rappresentativo della volontà popolare; ciò spiega chiaramente come negli anni è stato e continua ad essere interpretato il concetto di democrazia. La politica sempre di più dibatte e si confronta su tematiche inerenti i diritti civili, mentre le decisioni economiche fondamentali e strategiche vengono prese dai pochi individui degli esecutivi nazionali e sovranazionali. Tornando all’accordo del 1981, quest’ultimo prevede il divieto per la Banca Centrale di fare quello che aveva fatto fino ad allora, cioè acquistare i titoli del debito pubblico che rimanevano invenduti nelle aste pubbliche. Ciò significa una cosa molto semplice: da quel momento in poi lo Stato ha dovuto pagare interessi altissimi per vendere i propri titoli di stato. È arrivata a pagare anche il 12 per cento: il triplo della media europea, che si attestava intorno al 4 per cento. Ciò perché il Governo sapeva che se i titoli rimanevano invenduti non poteva contare sull’aiuto della Banca Centrale. Questa separazione tra il Tesoro e la Banca d’Italia è stata posta in essere al fine di depotenziare la politica, educarla e rendere autonomo il potere della Banca Centrale. Inoltre, come se non bastasse, per raggiungere l’obiettivo di essere accolti nell’Unione Europea con il Trattato di Maastricht, nello stesso periodo ci siamo impegnati ad avere un importante avanzo primario, cioè le entrate fiscali dello Stato dovevano essere maggiori delle uscite al netto degli interessi sul debito. In questo siamo stati, e continuiamo ad essere, i primi della classe in Europa. Abbiamo eseguito alla lettera tale ricetta perché convinti che ciò ci avrebbe permesso di ridurre notevolmente il debito, e ci avrebbe riportato verso quel famoso 60 per cento richiesto per l’ingresso nell’Unione monetaria. Da allora lo Stato ha iniziato ad incassare di più di quello che ha speso per i cittadini, per fare solo un esempio nel 2013 ha riscosso 516 miliardi spendendone soltanto 433. E questo è avvenuto tutti gli anni, dal 1990 in poi il bilancio dello Stato si è chiuso sempre in attivo, ad eccezione del 2009 nel quale c’è stato un deficit dell’1,1%. I risultati di questa politica sono sotto gli occhi di tutti, basta dare un’occhiata alle condizioni in cui versa il patrimonio pubblico nazionale. Gli avanzi di bilancio susseguiti negli anni, che ricordiamo è ricchezza sottratta ai cittadini, sono stati spesi con lo scopo di ridurre il debito pubblico. Basti pensare che ogni anno spendiamo circa 90 miliardi di euro solo per pagare gli interessi maturati. La verità, che nessuno ci racconta, è che su un debito di 2331 miliardi, in tutti questi anni abbiamo pagato circa 3300 miliardi di interesse. Il risultato conseguito è molto chiaro: si è trasferita la ricchezza dai cittadini alle banche, lasciando invariato l’importo totale del debito pubblico. Come un cane che si morde la coda siamo intrappolati in un meccanismo infernale nel quale pochi gruppi finanziari si arricchiscono alle spalle della popolazione, e dal quale non usciremo con dei semplici slogan.