La profonda crisi nella quale, da circa un decennio, siamo immersi è una crisi da domanda. Per dirla in maniera semplice: manca il lavoro, quello che c’è è sempre più precario e con salari inadeguati, di conseguenza rallentano i consumi. Il calo di quest’ultimi determina il decremento dell’offerta di beni e servizi, pertanto le aziende hanno sempre meno bisogno di forza lavoro e non effettuano investimenti, alimentando così la spirale negativa che conduce verso il fondo. In una situazione di questo genere l’unica scelta politico-economica sensata è quella che punta a far ripartire la domanda di beni e servizi. E per farlo c’è una sola strada: incrementare la spesa pubblica. Quando si parla di spesa pubblica, come ho già scritto, bisogna fare una distinzione tra spesa corrente (riferita al funzionamento dei pubblici servizi) e spesa in conto capitale (investimenti), perché, senza dubbio, quella che produce un ritorno maggiore sulla ricchezza complessiva del Paese, anche se con tempi più lunghi, è la seconda. Gli investimenti pubblici (piccoli o grandi che siano) rilanciano l’economia, creano posti di lavoro e muovono le risorse, oltre creare le infrastrutture per aumentare l’efficienza dell’intero sistema. Noi, come ho già scritto, nell’arco dell’ultima legislatura abbiamo aumentato la spesa pubblica totale di 25 miliardi puntando maggiormente sulla spesa corrente rispetto a quella in conto capitale. Con questa affermazione, con la quale riporto un dato di fatto, non voglio, come fanno in tanti, demonizzare l’incremento della spesa corrente considerandola soltanto uno spreco. Perché la spesa per il funzionamento dei pubblici servizi ha comunque una ricaduta positiva sulla ricchezza privata, anche se non paragonabile agli effetti procurati dagli investimenti. Banalmente, se un dipendente pubblico guadagna di più avrà più risorse da spendere sul mercato: di conseguenza la ricchezza pubblica si trasformerà in ricchezza privata. Ma ciò avverrà fino a quando gli aumenti di spesa sono rivolti a tutta la popolazione e non soltanto a una ristretta fascia di privilegiati. Perché, se tanti soldi vanno nelle mani di poche persone finiranno per arricchire queste ultime, senza alcuna ricaduta sul Paese. La formula giusta è: poco a tanti e non tanto a pochi. Ma se guardiamo i conti dell’ultima legislatura del nostro Paese ci accorgiamo che all’interno della spesa pubblica sono stanziati, in parte in conto corrente in parte in conto capitale, circa 50 miliardi di euro l’anno per trasferimento a fondo perduto. Tale spesa, maggiore di quella per gli investimenti, risulta iscritta a bilancio ed è prevista ogni anno fino al 2020. Sarebbe interessante sapere dove vanno a finire questi soldi e quanta ricchezza producono per il Paese. A ciò bisogna aggiungere che nonostante la nascita della Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione che ha l’obiettivo di razionalizzare la spesa pubblica) e la sbandierata politica dell’austerità, in questi anni le spese per l’acquisto di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni sono incrementate. Ad esempio gli acquisti e le forniture nel settore della sanità, gestite dalle regioni, sono aumentate del 50 per cento a fronte di un’inflazione che è stata, negli ultimi dieci anni, intorno al 30 per cento. Queste spese incontrollate producono ricchezza soltanto per qualche “fortunato” beneficiario e non certo per la collettività, pertanto non c’è alcuna spinta alla ripresa. Se è vero che la popolazione italiana sta drammaticamente invecchiando ed è quindi necessario incrementare le spese sanitarie, continua a non essere chiaro il meccanismo per cui una siringa costa 30 centesimi in una ASL e 3 euro in un’altra. Se il prossimo governo avrà la capacità e il coraggio di liberare queste cifre, assegnandole alla collettività piuttosto che ai pochi “soliti ignoti”, darà un bel segnale al Paese e le cose potrebbero iniziare ad andare nel verso giusto.