La seconda rivoluzione industriale si caratterizza per la teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro, frutto della mente dell’ingegner F. Taylor, il quale aveva notato che il lavoro si eseguiva in maniera caotica e non ottimale dal punto di vista dell’efficienza. Pertanto, dopo un’attenta analisi, mandò nelle officine dei dirigenti per cronometrare i tempi di manovra degli operai. Questo nuovo approccio eliminò i “tempi morti”, e creò il concetto di mansione, che definisce non solo ciò che ogni singolo lavoratore deve fare, ma anche come lo deve fare e in quanto tempo. Taylor giunse alla conclusione che per non perdere del tempo prezioso, e migliorare la produttività, era opportuno che gli operai restassero fermi e a muoversi fossero gli oggetti: nasce così la catena di montaggio. Ogni mattina ai lavoratori venivano recapitati dei talloncini con le indicazioni specifiche e dettagliate di ciò che andava fatto e con quali specifiche attrezzature, inoltre erano riportate le prestazioni del giorno precedente, e per i molti che non sapevano leggere, o che essendo stranieri non conoscevano la lingua, il colore del talloncino indicava il risultato ottenuto. Dai giudizi derivavano anche i diversi trattamenti economici e gestionali. Da tutto questo nasce il concetto di alienazione e tutto ciò che ne consegue. Questi argomenti, che oggi ai più sanno di retorica, sembrano appartenere ad un tempo lontano e definitivamente superato. In realtà, non si riesce a comprendere, che sono più attuali che mai, perché ci troviamo nel bel mezzo di una nuova rivoluzione industriale, ma non riusciamo a coglierla. La capiranno meglio le prossime generazioni, quando la studieranno sui libri di storia, perché come abbiamo già scritto, oggi più che mai, la realtà la capiamo solo se ce la spiegano. Non siamo più capaci di analizzare, non riusciamo più a comprendere il mondo direttamente, ma solo se mediato dai mezzi di comunicazione. Non viviamo davvero nel mondo ma nella sua narrazione, e la storia ce la raccontano i media in tutte le sue forme. Per questo motivo, non riusciamo a renderci conto dello smantellamento sistematico dello Stato sociale in atto, e rimaniamo indifferenti rispetto al progressivo depotenziamento di qualsiasi tipo di rappresentanza, sia politica che sindacale. In un mondo atomistico, dove siamo diventati tutti profondamente individualisti, gli enti di aggregazione sono nel pieno di una crisi esistenziale. Tutto ciò è stato possibile grazie al dominio incontrastato della tecnica, che isolandoci ha imposto un nuovo modello sociale, e tra i cambiamenti apportati, uno dei più importanti è quello della trasformazione del concetto di lavoro. Il confine tra ciò che è considerato lavoro e ciò che non lo è, è sempre più labile, e a volte è impossibile da stabilire con le vecchie categorie. Il segreto è tutto qui, nella mistificazione, nell’obnubilamento della realtà. Un passaggio fondamentale per portare a compimento questa trasformazione è l’annullamento dei confini, che non rappresentano solo una linea di demarcazione, ma costituiscono un mondo, fatto di cultura, regole, tradizioni, principi e punti di riferimento. Indebolendo i confini si abbattono le regole, si crea così una popolazione sradicata, senza consapevolezza dei propri diritti, che disorientata accetta qualsiasi condizione, in un mondo dove il lavoro è sempre più scarso e reso dequalificato dalla tecnica. A questo punto in nome della libertà si procede con la deregolamentazione, un processo applicato in tutti i settori, così da eliminare i controlli, le autorizzazioni, i permessi, le specializzazioni e le licenze. A chi ha dubbi si risponde che ciò avviene perché la globalizzazione, internet e la tecnologia, rendono “libero” il lavoro. È proprio questa forma di anarchia, di assenza di riferimenti e di strumenti che ci permetterebbero di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, che ci disorientano e ci impediscono di prendere coscienza dello stato di sottomissione ed eterodirezione nel quale siamo ingabbiati.