Lo sciopero dei tassisti, che ha paralizzato Roma per sei giorni nella metà di febbraio, mi ha inspirato qualche riflessione e, pur se con fatica, sono arrivato ad alcune conclusioni. Inutile dire che si tratta considerazioni del tutto personali e che, pertanto, contano poco più di nulla. Ma sono convinto siamo di fronte ad una problematica enorme, alla quale se possibile bisogna apportare il proprio contributo in termini di riflessioni, e che forse non è stata colta appieno dalla maggior parte dei cittadini. Facciamo il punto di quello che è successo per cercare di capire meglio. I tassisti, che sono proprietari di licenze pagate tanto, forse troppo, fino a
200mila euro, protestano contro una multinazionale di nome Uber, la quale ha sviluppato una app che permette a chiunque di collegarsi e chiedere o offrire un passaggio in auto. In realtà con lo stesso sistema si può prenotare anche altro, per esempio pasti d’asporto, ma da noi il caso si è sollevato in seguito alla protesta dei tassisti. D’istinto molti diranno: bene! Cosa c’è di male? È la concorrenza, bellezza! Oppure: cos’ha un tassista più di me? Tutto sommato per svolgere quel lavoro basta un’auto, una patente e un cellulare. Altri invece, schierati dalla parte dei tassisti, difenderanno il loro diritto esclusivo di svolgere quel lavoro, perché in fondo hanno un’autorizzazione regolarmente riconosciuta. Altrimenti, chiunque può alzarsi al mattino e svolgere una qualunque attività senza regole o controlli. Difficile stabilire chi ha ragione, anche perché dipende da che punto di vista affronti il problema: se lo fai come consumatore, probabilmente ti schiererai dalla parte di Uber, se lo fai come lavoratore, sarai dalla parte dei tassisti. Il problema è che noi tutti siamo o potremmo essere in qualsiasi momento tutte e due le cose, e il ragionamento diventerebbe schizofrenico. Allora dobbiamo cercare di estraniarci e guardare il fenomeno dall’alto, e capire che cosa sta succedendo. Potremmo dire che in realtà non sta succedendo nulla di nuovo, in fondo ogni volta che c’è stato un cambiamento nella società si sono verificate situazioni simili. Quando il nuovo incombe, si alzano subito le barriere e per istinto l’uomo tende a conservare, perché il passato dà sicurezza, mentre il cambiamento spaventa in quanto non lo si domina, e il dubbio rende insicuri. È stato così nelle grandi trasformazioni sociali, e sarà così in futuro. I cambiamenti più radicali si sono sicuramente avuti nelle tre rivoluzioni industriali. Ricordiamole brevemente: la prima c’è stata quando l’uomo abbandonò i campi per iniziare a lavorare nelle fabbriche e popolare le città, la seconda arrivò con l’utilizzo dell’elettricità che permise di intensificare la produzione, ormai frutto dell’attività delle macchine che lavoravano giorno e notte, la terza è arrivata con la digitalizzazione e l’informatica che ha messo in discussione il mondo precedente. Come è facile intuire, questi cambiamenti sono stati graduali, e sono stati colti a posteriori, perché non è facile comprenderli nel momento in cui avvengono, anzi, spesso vengono minimizzati. Riporto un aneddoto che rende bene il concetto: quando nel 1848 il primo treno a vapore giunse alla stazione Leopolda di Firenze, c’era ad accoglierlo il Granduca di Toscana con la folla festante e la melodia della banda. La sera si tenne l’annuale cena dei “carrettieri” che erano coloro che avevano garantito il trasporto nei decenni precedenti. Erano tutti un po’ spaventati ed incerti per il proprio futuro, ma il presidente dell’associazione alzando il calice al cielo brindò e rassicurò i suoi colleghi, affermando di stare tranquilli, perché mai quei mezzi così ingombranti e costosi avrebbero potuto danneggiare il loro capillare lavoro. Risultato? Dopo poco più di cinquant’anni il mestiere del “carrettiere” sparì. Oggi quando parliamo delle rivoluzioni industriali sembra tutto scontato, ma nel momento in cui le vivevano nessuno ne era consapevole, infatti per paura, rabbia e disorientamento arrivarono addirittura a distruggere le macchine, come nel periodo del luddismo, il movimento operaio nato nel XIX secolo in Inghilterra che prese il nome da un certo Ned Ludd. In quel periodo si sabotarono le macchine, costruite durante la rivoluzione industriale, perché considerate responsabili della disoccupazione e dei bassi salari. Ho fatto questa lunga premessa per arrivare a quale conclusione? Che probabilmente, siamo nel pieno di una quarta rivoluzione industriale, e che come è naturale che sia, la percepiamo ma non ce ne rendiamo ancora conto. Dirò di più: credo che questa sia di portata persino maggiore delle precedenti. Per gli stravolgimenti apportati è paragonabile alla prima, la cosiddetta “rivoluzione del carbone”, quando dall’immobilismo e l’incertezza che aveva dominato la vita umana dalle origini, si passa ad utilizzare le energie non rinnovabili. Oggi sta avvenendo un cambiamento altrettanto radicale, potremmo rappresentarlo con il passaggio dal “terreno” all’ “online”. Il nostro mondo, quello in cui siamo nati, si sta trasferendo in un’altra dimensione, ma noi non lo comprendiamo appieno, perché ci aggrappiamo a ciò che conosciamo e che è, anche se sempre più debolmente, “ancorato al terreno”. Ogni “trasferimento” che stiamo apportando ci spaventa, perché ci fa perdere il controllo, e finché il mondo e la mentalità “terrena” saranno nettamente separate dalla dimensione “online”, o se preferite dal “cloud”, continueranno i disagi e le proteste. Tutti i cambiamenti sono così, non avvengono mai in una notte, sono lenti e progressivi, i due mondi convivono per anni, così come hanno convissuto i cavalli con i treni, stanno convivendo le lettere con le email. Il problema è che la classe politica, dovrebbe togliere la testa da sotto la sabbia e cercare di gestire questi passaggi delicati. La domanda più importante alla quale, insieme alla società civile, dovrebbe rispondere è questa: dobbiamo fare tutto ciò che la tecnica ci permette o dobbiamo porre dei limiti? Per ora lascio irrisolto il quesito, perché se mi avventurassi nella risposta andrei fuori tema. Invece per rimanere all’interno del ragionamento, partirei da un’altra domanda alla quale bisogna subito rispondere, quella che riguarda l’argomento in oggetto: oggi che cosa intendiamo esattamente con il termine “lavoro”? Tornando ad Uber, il ragazzo che utilizza la app per arrotondare o addirittura per viverci è considerato un lavoratore? I sostenitori della gig economy (l’economia dei lavoretti) rispondono di no, perché in fondo si è liberi di lavorare quando se ne ha voglia o bisogno, accedendo al sistema e iniziando a ricevere le richieste e, quando non si ha più voglia, si esce. I detrattori sostengono che non è esattamente così, perché in realtà, una volta che si accede all’applicazione, si è inseriti in un sistema altamente competitivo, dove vengono misurate le prestazioni di ognuno e confrontate. Si crea un meccanismo premiale, dove tutto viene misurato e parametrato: dal tempo di risposta alla chiamata, alla velocità d’intervento. Infatti, se perdono tre richieste consecutive, il sistema li espelle per due minuti, così come quando arrivano, hanno al massimo venti secondi per accettare, quindi settimanalmente ricevono una classifica dei rendimenti, con l’indice di gradimento degli utenti. Tornando al passato, ricordiamo che la seconda rivoluzione industriale prese il via con il Taylorismo. Quando questo giovane ingegnere di Filadelfia, Frederick W. Taylor decise di misurare le prestazioni dei singoli lavoratori, e stabilire quali dovevano essere le operazioni più efficienti da compiere. Arrivò a stabilire che per produrre di più l’uomo doveva rimanere fermo mentre dovevano muoversi gli oggetti. Nasce così la catena di montaggio. Nel 1911 scrisse “L’organizzazione scientifica del lavoro”, dove viene definito il concetto di “mansione”, che stabilisce non solo quello che deve essere fatto, ma anche come deve essere fatto e il tempo necessario. A differenza del passato, il lavoratore non conosceva più il prodotto finito e non lo sapeva più costruire, ma si limitava ad eseguire una singola operazione. Da qui nasce l’alienazione del proletariato e tutto ciò che oggi sappiamo ne conseguì. Se ci pensiamo, anche se sotto una forma diversa, oggi stiamo vivendo la stessa situazione, perché con dei particolari algoritmi queste applicazioni riescono a calcolare tutte le varianti: tempo, traffico, affluenza ecc. per verificare la produttività di ciascuno e chi non produce adeguatamente viene penalizzato. Altra caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu la precaria condizione dei lavoratori. Uomini, donne e bambini lavoravano a ritmi esasperanti, in situazioni insicure e poco salubri e ci vollero decenni di scontri per arrivare alla nascita dei sindacati e al riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Quella che in questo articolo abbiamo chiamato la quarta rivoluzione industriale sta riproponendo gli stessi problemi, perché questi lavoratori, che le multinazionali come Uber o Deliveroo, non vogliono definire tali, lavorano tantissime ore al giorno a cottimo, guadagnando in proporzione a ciò che producono, e se si ammalano o hanno un qualsiasi problema non si vedono garantita alcuna forma di tutela. Così come ad esempio le spese del mezzo che utilizzano o il controllo sulla sicurezza del lavoro. Ci sono ragazzi che arrivano a lavorare anche 40 o 50 ore a settimana, per guadagnare poco più di 400 euro lorde. Insomma, gli stessi problemi del passato con una portata maggiore, perché coinvolgono ormai quasi tutto il pianeta, ma non si intravede ancora alcuna soluzione. La classe politica sembra non accorgersene e lascia che tutto questo avvenga, senza intervenire, forse sperando che le cose si risolvano da sole. Ci vorrebbero audacia, coraggio e capacità di previsione, per iniziare ad arginare quello che potrebbe accadere. Il “nuovo mondo” sta per esplodere e noi siamo completamente impreparati.