Sempre più spesso sentiamo parlare dei benefici provenienti da un eventuale ritorno alla democrazia diretta, e credo che ne sentiremo parlare anche in maniera più consistente in futuro, ma che cosa significa precisamente? È possibile? E soprattutto è vantaggiosa? A queste domande che mi passano da un po’ per la testa, ho cercato di dare delle risposte. Prima delle riflessioni, però, è necessario illustrare brevemente il concetto. Il primo assunto da chiarire è che la democrazia diretta è la prima forma di democrazia, e nasce circa 2500 anni fa ad Atene, nell’antica Grecia. Il popolo, non nella sua totalità ma qualcuno sostiene che si potesse arrivare a circa 7mila persone, si riuniva in una collina vicino l’acropoli e, dopo gli interventi degli oratori, prendeva le decisioni per alzata di mano. Nasce e prende forma qualcosa di straordinario per quel periodo: il principio “assembleare” e di “maggioranza”. Non sono concetti scontati, come qualcuno potrebbe pensare, e neanche valori assoluti, ma il frutto di mediazione e di evoluzione sociale e civile. Basti pensare che nell’antica Grecia l’altra grande potenza, nemica storica di Atene, era Sparta, dove il concetto di democrazia era completamente sconosciuto. Quella spartana era una società di guerrieri, basata sulla forza, dove le gerarchie erano determinate da criteri meno sofisticati, ma il cui sistema di governo non era così rozzo come si potrebbe pensare. Si basava infatti su una serie di equilibri e bilanciamenti tra i poteri. A Sparta vigeva la diarchia, il governo di due re, che divideva il potere con il consiglio degli anziani composto da 30 membri, che a sua volta vedeva fortemente limitato il suo potere da un terzo organo istituzionale che era il consiglio dei cinque efori (ispettori) eletti dall’assemblea di tutti, o quasi, gli spartani. Ma, tornando all’organizzazione ateniese, quella che è considerata la madre della democrazia in realtà era solo un embrione di quest’ultima. E questo non ci deve stupire, perché, anche se si tratta solo di una considerazione personale, credo di non essere lontano dalla realtà se affermo che l’unica vera democrazia di cui si può avere certezza, sia quella scolastica. Ogni qual volta, infatti, si sia compiuto il tentativo di mettere in pratica ciò che è riportato nei testi didattici, ne è venuto fuori qualcos’altro. Ad Atene, per esempio, avevano diritto di voto solo gli uomini nonché “figli di Atene”, e quindi solo una minoranza della popolazione. È stato calcolato che consistesse all’incirca nel 15 per cento del totale, quindi il 51 per cento di questa irrisoria percentuale decideva per tutti. Possiamo dedurne, senza il timore di essere smentiti, che si trattava di una oligarchia, anche se piuttosto allargata. Questo a dimostrazione che un concetto che potrebbe sembrare scontato, come quello di democrazia, in realtà di scontato non ha nulla, ed è difficilissimo da attuare nel suo significato letterale: “potere del popolo”. Era difficile allora e, con le dovute differenze e nonostante i tanti progressi, è difficile oggi, che dalla democrazia diretta ateniese siamo passati a quella indiretta, dove il popolo sovrano sceglie i suoi rappresentanti e affida loro il governo del Paese. Questo è il sistema che, anche se con innumerevoli varianti, vige da secoli in tutti gli Stati democratici. Il passaggio alla democrazia rappresentativa è avvenuto per diversi motivi, ma il più ovvio è che la democrazia diretta può funzionare bene in contesti ristretti e localizzati, mentre non è funzionale in contesti allargati. Questa considerazione si è dimostrata vera per molti secoli, perché le distanze hanno sempre rappresentato un problema man mano che confini siano andati estendendosi. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato, e sempre più spesso si auspica un ritorno alla democrazia ateniese. Ciò è possibile grazie ad uno strumento che ha abbattuto le distanze, ci fa sembrare tutto a portata di mano, e sta stravolgendo la nostra concezione di mondo: uno strumento che si chiama internet. In tempo reale possiamo vedere quello che succede dall’altra parte del pianeta e con un semplice click potremmo essere in grado di manifestare la nostra volontà. Grazie a queste nuove possibilità, impensabili fino a qualche decennio fa, nascono e fioriscono in tutta Europa movimenti e partiti che hanno come idea di base il ritorno alla democrazia diretta. Con molta probabilità questi movimenti sono destinati a crescere, perché la distanza tra i cittadini e la politica sembra diventata insanabile, dal momento che una parte sempre più consistente di popolo non si sente rappresentata e manifesta il desiderio di governarsi senza intermediari. Stanno nascendo partiti definiti “Pirata” che hanno l’obbiettivo di abbattere il “muro di vetro” che separa la classe politica dai cittadini. Il 29 ottobre 2016 si sono tenute le elezioni parlamentari in Islanda, il primo Paese che sembrava destinato a essere governato da un partito anti-sistema. Tutti i sondaggi, infatti, davano in vantaggio il partito Pirata fondato nel 2012 dalla poetessa e collaboratrice di wikileaks, Brigitta Jonsdottir. Ma, come sappiamo, i sondaggi ultimamente non sono molto attendibili, e anche in questo caso le previsioni si sono rilevate inesatte. Il 29 per cento dei cittadini ha preferito votare per la politica tradizionale, e ha decretato la vittoria dei conservatori rappresentati dal partito dell’Indipendenza. Resta comunque da non sottovalutare il 14 per cento ottenuto dai Pirati, e per comprendere la dimensione del fenomeno basti pensare che rispetto al 2013 hanno raddoppiato i voti. In Italia questo progetto politico è portato avanti dal Movimento 5 Stelle, che in pochi anni è cresciuto a dismisura, e ha ormai iniziato a governare Comuni importanti quali Torino e Roma e si contende il primo posto nei consensi con il Partito Democratico. E’ bene ricordare inoltre che, nel nostro Paese, il primo a parlare di democrazia diretta e condurre battaglie civili con lo strumento del referendum è stato il Partito Radicale con il suo leader indiscusso Marco Pannella, a partire dal 1974. Ma i movimenti attuali vogliono di più, vogliono riportare i cittadini al centro della vita politica, delegittimando una politica intesa come professione che è autoreferenziale, affarista e sottomessa al potere finanziario. Bisogna riconoscere che questi movimenti ci hanno salvato e potrebbero ancora farlo, in un mondo dove soffia sempre più forte il vento del populismo. Basti vedere ciò che è successo negli Stati Uniti con la vittoria di Trump, e la crescita in tutta Europa, a partire dall’Ungheria e la Polonia, per passare alla Francia e alla Germania, dei partiti di estrema destra. Queste forze anti-sistema che invocano la democrazia diretta, uscendo fuori dagli schemi destra-sinistra, potrebbero continuare a incanalare il malcontento ed evitare una deriva nazionalista, razzista e autoritaria. A mio avviso questi movimenti, pur svolgendo una funzione importante in questo momento storico, hanno tuttavia dei grossi limiti. Essi vanno dai meccanismi interni che devono essere migliorati e resi più trasparenti, all’inesperienza che li potrebbe indurre a commettere errori grossolani. Inoltre le loro proposte, che in prima battuta sembrerebbero risolutive, in realtà sollevano molteplici questioni. La società attuale è altamente complessa e settorializzata, nessuno ha le competenze adatte per comprenderne appieno le dinamiche, e per questo motivo sarebbe fondamentale il ruolo del politico. Quest’ultimo non è colui che sa tutto e ha la soluzione ad ogni problema, ma è o dovrebbe essere una persona scelta dal popolo per le sue doti di ascolto e mediazione che, avvalendosi di uno staff di tecnici competenti, riesce a trovare la migliore soluzione possibile ad ogni problema, confrontandosi anche aspramente con chi ha un’opinione diversa dalla sua. Un lavoro duro, continuo e teso al miglioramento della società. Il problema più evidente che si pone è: i cittadini sono nelle condizioni di prendere qualsiasi tipo di decisione? In un contesto di democrazia diretta si limiterebbero alla scelta del sì o del no su un determinato argomento. Ma i cittadini non hanno a disposizione uno staff di tecnici, e non hanno le conoscenze necessarie per individuare la soluzione di tutti i problemi. Ognuno di noi dovrebbe essere un esperto per affrontare tematiche che riguardano la genetica, le infrastrutture, l’economia, l’ambiente eccetera. Un cittadino comune ha le competenze per scegliere tra una forma di governo Presidenziale,
Semi-presidenziale o Parlamentare? Oppure per decidere sull’utilizzo degli alimenti geneticamente modificati? O sull’opportunità o meno di sfruttare alcune fonti di energia piuttosto che altre? Chiaramente la risposta è negativa, e di esempi così ne potremmo fare a decine. A questo bisogna aggiungere che le scelte che si fanno spontaneamente perché istintive, ad un’analisi più approfondita, spesso, si rivelano inesatte. Quindi ci troveremo di fronte a scelte enormi prese da un gran numero di persone incompetenti e che spesso non hanno neanche voglia di occuparsi di tali argomenti. Per operare delle scelte appropriate dovremmo passare gran parte del nostro tempo a studiare tutte le problematiche che si possono incontrare in una società globalizzata, con tutti i limiti della nostra preparazione in settori che non sono i nostri. Inoltre la decisione sarebbe presa in maniera solitaria e fredda davanti allo schermo di un pc, senza la possibilità di alcun confronto. La storia ci ha insegnato che la discussione è la base della democrazia, perché nel confronto si comprendono anche le ragioni dell’altro e spesso si rivedono le proprie, giungendo ad un punto d’incontro. Chiaramente, mi riferisco ad un confronto sano e costruttivo, non agli pseudo-dibattiti che siamo abituati a vedere nei talk show, volti solo a fare spettacolo. Parlo del confronto che mira a comprendere meglio i problemi, che induce ad una crescita dei partecipanti, perché ha come obiettivo non di dimostrare chi ha ragione, ma di trovare una soluzione ai problemi. Un’altra questione rilevante consiste nell’enorme potere che si andrebbe a concentrare nelle mani di chi formula le domande. Potrebbe sembrare un problema secondario, ma in realtà è fondamentale. Pensate all’enorme influenza che avrebbe sulla massa chi sceglie come porre il quesito. Di fronte ad una maggioranza non competente sull’argomento da trattare, e ad una parte di cittadini con una bassa scolarizzazione, diventa semplice orientare l’opinione pubblica con slogan e domande tendenziose. Basterebbe un leader ambizioso e senza grossi scrupoli, per riuscire facilmente a traghettare dalla sua parte l’opinione comune. Ricordiamo sempre che le soluzioni semplici sono quelle che piacciono di più alla massa perché si capiscono prima, e che inoltre tutte le dittature sono iniziate con delle critiche rivolte ai parlamenti, accusati spesso di corruzione e di non riuscire a risolvere i problemi. Prima di cambiare sistema, ed eliminare la rappresentanza, sarebbe forse il caso di iniziare a lavorare sul senso civico e di appartenenza. Un lavoro che dovrebbe partire dalle scuole, dalle famiglie e dalle strutture aggregative di qualsiasi genere. Rompere la concezione familistica dello Stato e riuscire a far comprendere che il “pubblico” è di tutti e non di nessuno. Per fare questo ci vorrebbero uomini che riescano a guardare lontano e non alle prossime elezioni. Un radicale cambio di mentalità, un ritorno alla politica, quella vera, intesa come vocazione e non come professione. La politica non deve essere un ascensore sociale, ma uno strumento dove “i migliori”, per un periodo limitato, diano il proprio contributo al bene comune. È difficile ma è da qui che bisogna ripartire, perché non è il modello politico che fa l’uomo. Quindi ben vengano i movimenti di protesta, che servono sicuramente a dare uno scossone al sistema, a fare da monito e a tutto quello di buono che ho su esposto. Ma se vogliamo davvero cambiare le cose non possiamo che lavorare sul senso civico di una comunità, perché se la società è malata, non basta un modello, una nuova forma di governo o una riforma costituzionale per guarirla. Prima di mettere in atto un nuovo sistema bisogna accertarsi che la cura non sia peggiore del male.